Marco Bertozzi Thomas Hobbes. L’enigma del Leviatano (1983) Un’analisi della storia delle immagini del Leviathan
(Questo articolo fa parte del Dossier
Il potere: forme, rappresentazioni, contestazioni)
1) Le immagini del Leviatano
Leviathan e il suo antagonista Behemoth, i mitici mostri biblici che compaiono nel libro di Giobbe, sono anche i titoli di due famose opere di Thomas Hobbes. I due mostri hanno una lunga storia, prima di giungere fino a Hobbes: dalla tradizione vetero-testamentaria, ai commenti dei padri della chiesa, alle interpretazioni ermetico-cabalistiche e apocalittiche del Medioevo e del Rinascimento. Di questa storia vedremo qualche frammento, che ci possa aiutare a ricostruire le immagini tratteggiate da Hobbes e a penetrarne il significato.
Punto di partenza è il libro di Giobbe: ne ricordiamo, molto brevemente, la storia. Giobbe, uomo retto, timorato di Dio e nemico del male, viene privato dei suoi beni, colpito negli affetti e infine terribilmente piagato in tutto il corpo da un’infezione maligna. Egli proclama la sua innocenza e si ribella alla crudeltà divina. Invano alcuni amici cercano di convincerlo che la sua sofferenza è la punizione di qualche colpa. Le cause della sofferenza restano, per Giobbe, un mistero. Alla fine interviene Dio stesso, dall’alto di una turbinosa tempesta, affermando la propria onnipotenza di fronte all’insensata ragione di Giobbe: «Dov’eri tu quando ponevo le fondamenta del mondo?». Vengono poi esibite le opere della creazione, fenomeni naturali, costellazioni, animali curiosi. Ed infine Dio, a testimonianza della sua potestas, mostra il terribile potere dei mitici Behemoth e Leviathan. Solo allora Giobbe si sottomette all’onnipotenza divina e riacquista la prosperità perduta.
Ecco la rappresentazione di Behemoth: si nutre di erba come un bue, la forza sta nei suoi lombi e il vigore nell’ombelico del suo ventre. Leva la sua coda come un cedro e i nervi dei suoi testicoli sono strettamente intrecciati: «Constringit caudam suam quasi cedrus. Nervi testiculorum ejus perplexi sunt». Le sue ossa sono come tubi di rame e le sue cartilagini come sbarre di ferro. I monti gli forniscono il pascolo e ogni bestia dei campi si diverte a scherzare con lui. Sta sdraiato nell’ombra, in mezzo alle canne delle paludi, ricoperto dalle piante di loto, circondato dai salici dei torrenti. Non teme l’acqua del fiume, anche se fosse il Giordano a straripare nella sua enorme bocca.
Entra poi in scena il Leviathan, terribile nella sua maestosa potenza. L’uomo non può prenderlo all’amo, né legare la sua lingua con una fune: «An extrahere poteris Leviathan hamo et fune ligabis linguam ejus?». Non si può far passare un giunco attraverso le sue narici, né perforargli le mascelle con un uncino. Non rivolge certo preghiere o dolci parole, né scende a patti con gli uomini o si lascia asservire per sempre. Non si può giocare con lui o legarlo per divertimento. Non lo si può dividere e far mercato delle sue spoglie. La sua pelle resiste alle frecce e la sua testa alla fiocina. È impossibile lottare con lui: chi lo assale non ha alcuna speranza di sconfiggerlo; basta guardarlo per rimanere paralizzati dalla paura. Vengono poi messe in rilievo la forza e la compattezza della sua corazza, che non si può aprire attraverso alcuna fessura. La stretta morsa dei suoi denti, intorno a cui regna il terrore, rende impenetrabile la sua gola. Il suo corpo è formato da squame compatte come un sigillo: sono così strette e inseparabili che tra di esse non passa il benché minimo filo d’aria. Dalla sua gola e dalla bocca escono fiamme e scintille, dalle narici esce fumo. La sua forza risiede nel collo e davanti a lui si spande il terrore. La sua carne è solida e compatta, il suo cuore è duro come una pietra. Anche i più forti ne sono atterriti. Spada, lancia e giavellotto sono inutili: contro di lui il ferro è come paglia e il bronzo come legno marcio. Il mare ribolle sotto il Leviathan; si lascia alle spalle una scia luminosa e l’abisso si ricopre di bianca schiuma. Nessuno può essergli paragonato, sulla terra: «Non est super terram potestas quae comparetur ei». Non ha paura di nessuno, guarda tutti dall’alto ed è il re di tutti i figli dell’orgoglio: «Ipse est rex super universos filios superbiae».
Nel commento di s. Gerolamo Behemoth e Leviathan sono considerati simboli del «nemico», il satana che nel prologo del libro mette alla prova la lealtà e la fede di Giobbe in Dio. Ogni particolare della descrizione dei due mostri viene ricollegato al diavolo e a tutti i suoi alleati. In questo senso Behemoth viene considerato un plurale, un insieme di diaboliche bestie scatenate: «Behemoth namque doctores Ecclesiae, qui Hebraeas litteras contigerunt, in Latinum quasi plures interpretati sunt. Proinde inimicus diabolus cum toto corpore satellitum suorum hoc loco a Deo describitur». La natura diabolica, oltre che in altri particolari, troverebbe riscontro nella sfrenata e bestiale libidine di Behemoth: la sua forza, che ha sede nei lombi e nell’ombelico, viene intesa come «ventris voluptas, vel carnis luxuria».
Il Leviathan, secondo il commento di Gerolamo, non è altro che un nuovo termine che viene introdotto per designare sempre un’entità diabolica. Con la differenza che Behemoth è un mostro terrestre, mentre Leviathan, che dimora nelle acque del mare, sarebbe un mostro marino (magnus draco). È per questo, continua Gerolamo, che alcuni hanno detto che la potenza e l’astuzia del demonio ha preso corpo nell’orrendo dragone del mare. «In quel giorno, l’Eterno punirà con la sua spada dura, grande e forte, il Leviathan, l’agile serpente, il Leviathan, il serpente tortuoso, e ucciderà il mostro ch’è nel mare!». «Tu, con la tua forza, spartisti il mare, tu spezzasti il capo ai mostri marini sulle acque, tu spezzasti il capo del Leviathan, tu lo desti in pasto al popolo del deserto».
L’impossibilità per l’uomo di prendere all’amo il Leviathan è associata, da Gerolamo, ad un altro brano dell’Antico Testamento: «Stenderò su di lui la mia rete, ed egli rimarrà preso nel mio laccio», dove l’amo rappresenterebbe il figlio di Dio incarnato e la rete il suo insegnamento, entrambi esche solidissime e indistruttibili. Proprio in Ezechiele ricorre l’immagine del coccodrillo, che rappresenta il faraone d’Egitto, catturato con robusti ganci: «Eccomi contro di te, Faraone, re d’Egitto, gran coccodrillo, che giaci in mezzo ai tuoi fiumi… Io metterò dei ganci nelle tue mascelle, e farò sì che i pesci dei tuoi fiumi s’attaccheranno alle tue scaglie, e ti trarrò fuori di mezzo ai tuoi fiumi, con tutti i pesci dei tuoi fiumi attaccati alle tue scaglie».
Un altro suggerimento di Gerolamo, che si ritroverà poi nella letteratura apocalittica dei secoli XIV-XVII, è quello di collegare il Leviathan, che non scende a patti né si lascia catturare e legare dall’uomo, con il drago dell’Apocalisse: «Poi vidi un angelo che scendeva dal cielo e aveva la chiave dell’abisso e una gran catena in mano. Ed egli afferrò il dragone, il serpente antico, che è il Diavolo e Satana e lo legò per mille anni, lo gettò nell’abisso che chiuse e suggellò sopra di lui onde non seducesse più le nazioni finché fossero compiuti i mille anni; dopo di che egli ha da esser sciolto per un po’ di tempo». Tralasciamo altre interpretazioni che, sempre in chiave diabolica, sono proposte da Gerolamo (alcune delle quali facilmente intuibili, come quella del fumo e delle fiamme che escono dalle narici e dalla gola del mostro), ricordando solo l’indicazione di una certa superiorità del Leviathan, che è, secondo il citato commento di Gerolamo, «caput et princeps omnium superborum».
Questa interpretazione ebbe molto successo e la ritroviamo, con varianti e integrazioni, nelle elaborazioni teologiche di altri padri della chiesa. Tale tradizione è illustrata in una miniatura dell’Hortus Deliciarum (fine XII secolo), opera della badessa Herrade von Landsberg, dove Dio è raffigurato come un pescatore, Cristo in croce come esca all’amo e il Leviatano come un pesce gigante che, ingannato dall’apparente fragilità dell’esca, viene catturato.
Nel Liber Floridus (1120 circa), che si richiama ai commenti di Gregorio Magno, sono descritti e raffigurati i due favolosi mostri biblici: un diavolo con le corna in groppa al Behemoth, una specie di bue selvatico; l’Anticristo insediato sul dorso del Leviathan, una specie di drago-serpente di mare.
Giovanni di Salisbury, nel suo Policraticus, contrappone alla res publica un corpusunico del male, rappresentato da Behemoth e Leviathan insieme: i malvagi formano questo corpus unito e compatto «quia convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Christum ejus».
Questa tradizione, ulteriormente arricchita di particolari da Tommaso d’Aquino, verrà interrotta da Calvino. Egli identifica Behemoth e Leviathan con l’elefante e la balena, considerandoli il riflesso speculare della potenza divina. Dunque essi non sono rappresentazioni simboliche del demonio, ma la manifestazione della «puissance de Dieu» nelle cose visibili. Affiora quindi una diversa corrente interpretativa, che potrà essere utilizzata da Hobbes per liberare il Leviatano dal contenuto demoniaco, assegnatogli da una lunga tradizione.
Tuttavia non si può dire che il significato diabolico fosse scomparso prima di Hobbes. Lo troviamo, mediato da influssi cabalistico-occultisti, nella De magorum daemonomania (1581) di Jean Bodin: il demonio è rappresentato dal Leviatano, come compare nel libro di Giobbe, al cui potere nessuno può resistere sulla terra. Si dice che egli non si accontenti dei corpi degli uomini, ma che ne insidi anche le anime, per cui diventa impossibile scendere a patti con lui. È un ammonimento per coloro che pensano di poter controllare gli «spiriti arcani».
Juan Maldonado, nel Traicté des anges et démons (1605), si era richiamato al testo di Giobbe (XL-XLI) per descrivere il diavolo, come già aveva fatto Lutero diverso tempo prima, affermando che il demonio «considera il ferro come paglia e non teme alcuna forza in terra».
Anche Joseph Caryl, i cui commenti a Giobbe erano conosciuti e apprezzati da Hobbes, interpretava il Leviathan come un rappresentante di satana e dei suoi strumenti. Egli si riferiva al diavolo, «quel grande Leviathan: sotto il cui nome… sono compresi i nemici di Cristo e della sua chiesa». Come mai, allora, Hobbes usa un simbolo che ai suoi tempi doveva apparire così screditato?
In un altro brano, lo stesso Caryl affermava che «come il sole è un principe tra lo splendore del cielo, così il Leviathan è un principe, un re tra i pesci del mare». Egli sottolineava inoltre, richiamando l’attenzione sulla descrizione delle scaglie strettamente connesse e impenetrabili del Leviathan, che la parola derivava dall’ebraico «Lavah, cioè unito o associato. Donde Leviathan, cioè società o associazione». Dunque nell’usare il termine Leviathan, come simbolo dell’unità dello stato nella persona sovrana, Hobbes seguiva una tradizione esegetica minore, che era comunque presente nella critica biblica alla metà del XVII secolo. Ma egli seguiva una tradizione minore anche nell’interpretare il significato del Leviathan, proprio perché si rifiutava di vedere nel mostro biblico la raffigurazione allegorica del diavolo.
Hobbes, com’è testimoniato dal suo programma di studio compilato nel 1631 circa, aveva uno spiccato interesse per l’astrologia, la magia, la necromanzia. Nel suo progetto di lavoro si riflettono gli interessi culturali del periodo tra Rinascimento e XVII secolo: «il pensatore inglese non faceva nulla più che seguire una tradizione ben radicata all’epoca sua, ove la filosofia procedeva di pari passo con la magia, l’astronomia con l’astrologia, la scienza naturale con l’alchimia». È vero che Hobbes discuteva di magia e stregoneria alla tavola dei suoi nobili protettori, ma è nota la sua incredulità nei confronti di presunte manifestazioni soprannaturali e demoniache. È dunque plausibile che Hobbes volesse separare il Leviatano dalle innumerevoli associazioni diaboliche, che abbiamo visto, accettando invece il senso di rappresentazione speculare dell’onnipotenza divina. La paura del terribile mostro aveva, in questo caso, la funzione di mantenere gli uomini uniti tra loro. L’apparizione del Leviatano non preannuncia la fine del mondo e Hobbes non è, com’è stato ironicamente definito, l’angelo dell’apocalisse. Il filosofo si rendeva conto della necessità (siapure mostruosa, ma non demoniaca) di evocare il Leviatano. Dopo lo sgretolamento della monarchia e l’esecuzione di Carlo I nel 1649, era necessario commissionare una dittatura a chi era in grado di ristabilire la pace e garantire la sicurezza perduta.
A questo punto può risultare più chiaro il significato di Behemoth, titolo con cui è nota l’opera di Hobbes sulle guerre civili d’Inghilterra. È vero che egli lo considerava un titolo sciocco, «a foolish title», tuttavia durante la controversia con il vescovo John Bramhall aveva esplicitamente invitato i suoi avversari ad intitolare i loro libri «Behemoth against Leviathan». Inoltre nella Historia Ecclesiastica Leviathan viene collegato a rex e Behemoth a populus. «Rex est populus»: la coincidenza tra popolo e persona sovrana è un paradosso, il risultato di un barocco artificio teatrale (come appare dal cap. XVI del Leviathan), che contiene in sè la possibilità di trasformarsi in un dramma. Ecco allora entrare in scena Behemoth, mostruosa moltitudine di individui scatenati da passioni politico-religiose (si ricordi la sfrenata libidine di Behemoth, collegata alla potenza dei suoi testicoli).
Al Leviathan, simbolo dell’unità dello stato nella persona sovrana, corrisponde Behemoth, simbolo del caos e della ribellione. Sono due simboli complementari, due forze corrispondenti: «Stato e rivoluzione, Leviatano e Behemoth, sono entrambi sempre presenti e potenzialmente attivi». Nella paura di Hobbes si potrebbero riflettere antiche leggende e profezie, secondo cui, dopo un duello terrificante, Behemoth avrebbe distrutto Leviathan o comunque i due mostri si sarebbero massacrati a vicenda. «Dopo uno scontro che avrà suscitato il maremoto, le corna ricurve di Behemoth apriranno uno squarcio nel Leviathan, mentre le pinne aguzze del Leviathan feriranno Behemoth». Quando i sudditi cristiani, scrive Hobbes, non considerano più il loro sovrano «profeta di Dio», allora ogni legge, sia divina che umana, è distrutta: governo e società tornano «al caos primigenio della violenza e della guerra civile».
[Anticristo insediato sul dorso del Leviathan]
Hobbes preferiva, al Behemoth del lungo parlamento, la rinascita di un potente Leviatano. È proprio una curiosa coincidenza che il Leviathan di Hobbes (trasformato da mostro marino a simbolo dello stato) fosse pubblicato lo stesso anno delNavigation Act (1651), con cui l’Inghilterra affermava le proprie pretese di grande potenza marittima e commerciale.
2) Il Leviatano di Hobbes
Sul frontespizio della prima edizione inglese del Leviathan (1651) troviamo, posta come epigrafe, una citazione tratta dalla Vulgata: «Non est potestas super terram quae comparetur ei Iob. 41.24». Il Leviatano, inciso sul frontespizio, è rappresentato come un essere gigantesco, dall’aspetto umano. Il suo corpo, formato da una miriade di scaglie raffiguranti uomini in miniatura, sovrasta una città e i suoi dintorni. Con la mano destra tiene una spada, con la sinistra un bastone pastorale. Sotto il braccio destro compaiono cinque piccoli pannelli, in cui sono illustrati: una roccaforte, una corona, un cannone, armi e bandiere, un campo di battaglia. Sotto il braccio sinistro si trovano incolonnati altri cinque pannelli: una chiesa, una mitria pastorale, le folgori della scomunica, un piccolo repertorio delle sottili e acuminate distinzioni della scolastica e infine un concilio.
Hobbes ci ha offerto tre chiavi di lettura per comprendere il significato del suo Leviatano. Nell’introduzione al libro egli lo definisce animale artificiale, un automa: è un prodotto dell’arte umana che, imitando l’uomo naturale, riesce a spingersi oltre i confini di una semplice riproduzione meccanica, come quella di un orologio. Risultato di questo atto creativo, la cui ratio consiste nel superamento della imperfetta condizione naturale, è il magnus Leviathan, la comunità politica o stato: «Magnus ille Leviathan, quae civitas appellatur, opificium artis est et homo artificialis, quanquam homine naturali, propter cujus protectionem et salutem excogitatus est, et mole et robore multo major».
Un’altra indicazione troviamo nel capitolo in cui Hobbes illustra il processo generativo dello stato, cioè sempre del grande Leviatano, che in questo caso è anche definitodeus mortalis: «Atque haec est generatio magni illius Leviathan, vel, ut dignius loquar, mortalis Dei; cui pacem et protectionem sub Deo immortali debemus omnem».
La terza indicazione proviene dal cap. XXVIII, «Delle punizioni e delle ricompense», alla fine del quale Hobbes sintetizza la trama del suo lungo discorso politico: «Hactenus de natura hominis, quem superbia aliaeque passiones suae ad submittendum se regimini alicui compulerunt, et rectoris sui potentia ingente disserui; comparans illum magno illi Leviathan; de quo (Job XLI.24,25) dicit Deus,non est potestas super terram, quae comparetur ei: factus est, ita non metuat: videt sublimia omnia infra se; et rex est omnium filiorum superbiae».
La rappresentazione del Leviathan nel libro di Giobbe ha offerto a Hobbes un modello, nel delineare l’immagine dell’unità dello stato nella persona sovrana. Il Leviathan forma un corpo compatto, senza incrinature, non supplica e non scende a patti con gli uomini, proprio come il sovrano di Hobbes. L’immagine del terrore che regna tra i denti del mostro è riproposta da Hobbes in un suggestivo brano: «è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare la volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni». Non possiamo poi dimenticarci che il significato del libro di Giobbe è legato al tema del giusto sofferente. Secondo Greenleaf, ai tempi di Hobbes i significati simbolici ed allegorici del libro di Giobbe, e le relative implicazioni politiche, erano esplicitamente riconosciuti. Joseph Caryl (che scriveva i suoi commenti a Giobbe nel 1643, proprio all’inizio della guerra civile) era consapevole degli insegnamenti pratici che il suo libro avrebbe potuto avere e lo raccomandava al lettore cristiano, perché le sventure dell’Inghilterra sembravano analoghe a quelle dell’individuo Giobbe. E, proseguendo nell’analogia, intravedeva una probabile futura restaurazione della prosperità per una nazione così duramente colpita.
Sia per Caryl che per Hobbes il tema centrale di Giobbe è proprio questo: perché spesso i malvagi prosperano e i buoni soffrono le avversità. «Questa questione, nel caso di Giobbe, è decisa da Dio stesso non con argomenti derivanti dal peccato di Giobbe, ma dal suo potere. Infatti, mentre gli amici di Giobbe argomentavano che la sua afflizione era per un suo peccato, ed egli si difendeva con la coscienza della sua innocenza, Dio stesso si occupa della cosa e, avendo giustificato l’afflizione con argomenti tratti dal suo potere, come questo, dove eri quando ponevo le fondamenta della terra? (Giobbe, XXXVIII 4), e simili, approvò l’innocenza di Giobbe e riprovò l’erronea dottrina dei suoi amici».
Il passo su Giobbe si inquadra nel discorso che Hobbes fa a proposito dello stato di natura. Qui vigeva lo «jus omnium in omnia» e quindi anche il diritto di ciascuno a regnare su tutti gli altri, con un’eccezione: nel caso in cui «ci fosse stato un uomo con un potere irresistibile, non vi sarebbe stata ragione per la quale, con quel potere, non avrebbe retto e difeso se stesso e gli altri, a sua discrezione. Perciò a quelli il cui potere è irresistibile il dominio su tutti gli uomini è naturalmente aderente per l’eccellenza del loro potere». Dio regna sugli uomini e ha «il diritto di affliggerli a suo piacimento», aggiunge Hobbes, semplicemente in base alla sua onnipotenza. Il peccato è la causa della punizione; Dio però fonda il diritto di punire gli uomini non solo sui loro peccati, ma anche sul suo potere irresistibile. Il Leviathan, «rex super universos filios superbiae», ha un analogo potere sulla terra. «Solamente lo Stato è capace di contenere l’orgoglio per un prolungato periodo, anzi non ha altra ragion d’essere salvo che il naturale appetito dell’uomo sia l’orgoglio, l’ambizione e la vanità. E con questa convinzione che Hobbes del suo libro, il Leviathan, diceche è “iustitiae mensura, atque ambitionis elenchus”».
Nel 1650-51 Carlo I, la cui condanna a morte era stata eseguita nel 1649, non poteva più rappresentare nulla di simile. Nell’incisione che precede la terza parte della traduzione inglese del De Civeè tratteggiata la figura di Carlo I, che reca sul collo i segni della decapitazione. Egli è rappresentato con a fianco un agnello, simbolo dell’innocenza, mentre si ritrae da un fascio di armi. Di fronte a lui, ormai inerme, compaiono tre bestie: un dragone, un leopardo e un serpente. Il dragone potrebbe simboleggiare la faziosità, il leopardo l’invidia o l’ipocrisia, il serpente il peccato d’orgoglio e la ribellione. A chi dunque doveva essere affidato il compito di soggiogare i figli dell’orgoglio? Un’interessante risposta può venire dall’esame dei frontespizi del Leviathan.
L’incisione che appare sul frontespizio del libro di Hobbes era stata attribuita a Wenceslas Hollar. Di recente, Keith Brown ha compiuto un’analisi minuziosa del frontespizio, mettendo in evidenza che l’imprecisione di alcuni particolari, soprattutto in relazione all’architettura degli edifici raffigurati, sarebbe in contrasto con le qualità stilistiche di Hollar. È invece probabile che l’artista boemo fosse l’autore del disegno preparatorio del frontespizio, che Hobbes consegnò, insieme ad una copia manoscritta del suo libro, al futuro Carlo II Stuart durante l’esilio parigino. Visto però che la composizione generale e lo stile delle due versioni sono simili, si può pensare che un artigiano inglese abbia eseguito l’incisione per la stampa sulla base del modello di Hollar, che Hobbes aveva inviato all’editore insieme al manoscritto del libro. L’importanza del disegno è dimostrata dal fatto che Hobbes si premurò di offrirlo in dono al futuro Carlo II (a cui il filosofo aveva insegnato matematica durante l’esilio) prima della pubblicazione.
Il comportamento di Hobbes si può spiegare con la preoccupazione che egli aveva di cautelarsi nei confronti degli ambienti monarchici. Il filosofo temeva che i fautori della monarchia Stuart non avrebbero approvato il contenuto del libro. Quindi, con abile mossa, poteva aver richiesto proprio l’opera di Hollar, già maestro di disegno di Carlo II e suo fedele sostenitore, le cui qualità stilistiche dovevano certo essere gradite al sovrano in esilio. Ma, a parte l’interessante questione degli aspetti stilistici, è sorprendente constatare che vi sono due sostanziali differenze tra il disegno e la versione a stampa del frontespizio: i tratti del volto e la composizione del corpo deldeus mortalis. Nel disegno lo sguardo degli individui che compongono il corpo è rivolto all’esterno e potrebbe indicare una coincidenza tra la volontà del sovrano e quella dei sudditi. Secondo Brown, l’immagine che suggerisce questa unità d’intenti ricorda la raffigurazione di una mostruosa «legione» di demoni. Brown si riferisce al frontespizio della Lettera apologetica di John Dee, indirizzata all’arcivescovo di Canterbury, «che mostra Dee in ginocchio sul cuscino della speranza, dell’umiltà e della pazienza, con il capo levato in preghiera verso i cieli rannuvolati in cui si possono vedere l’orecchio, l’occhio e la spada vendicatrice di Dio; di fronte a lui è il mostro multicefalo delle lingue mendaci e delle dicerie sgradevoli, con le teste rivolte in atteggiamento malevolo nella sua direzione. Egli assicura sinceramente all’arcivescovo che tutti i suoi studi sono stati indirizzati alla ricerca della verità divina e che si tratta di studi sacri, non diabolici come falsamente asseriscono i suoi nemici».
L’intento di Hobbes, come abbiamo già illustrato, era proprio quello di eliminare dal suo Leviatano ogni suggestione demoniaca. In questo caso, l’identica disposizione degli sguardi, sia del Leviatano che degli individui strettamente connessi al suo corpo, può essere meglio intesa se messa in rapporto con il cambiamento dei tratti del volto del «dio mortale». Nel disegno del frontespizio si nota una rassomiglianza con il ritratto del giovane Carlo II , mentre nelle due edizioni a stampa del 1651 il volto potrebbe ricordare quello di Cromwell. Il cambiamento può essere attribuito alla prudenza dell’editore londinese o dello stesso Hobbes, che aveva sempre cercato di mantenere aperta la via del ritorno in patria. Il filosofo, pur avendo insegnato matematica a Carlo II nel 1646, cercò di far togliere dalla edizione del De Cive del 1647 il proprio ritratto con sotto la scritta che era stato maestro del principe di Galles. Tale titolo poteva infatti precludergli il ritorno ed egli non capiva perché non doveva ritornare in Inghilterra se, «in qualsiasi modo», veniva ristabilita la pace.
Nel 1662, a restaurazione monarchica ormai avvenuta, il matematico John Wallis accusò Hobbes di aver scritto il Leviathan per ingraziarsi Cromwell e poter così ritornare in patria dopo undici anni di esilio. Hobbes si difese, affermando che non aveva inteso adulare Cromwell, il quale diventò protettore due o tre anni dopo, ma che aveva scritto il libro in difesa «di quei molti e fedeli servitori e sudditi di sua maestà che avessero preso la loro parte nella guerra o fatto comunque il loro massimo sforzo per difendere i diritti e la persona del re contro i ribelli: costoro non avendo altri mezzi di protezione né, per la maggior parte, di vita, furono costretti a venire a patti… e a promettere obbedienza in cambio della salvezza delle loro vite e dei loro patrimoni».
Prima della restaurazione, Hobbes era stato molto più esplicito e aveva riconosciuto, con un certo orgoglio, che il suo libro aveva disposto la mente di molti gentiluomini ad obbedire scrupolosamente al governo di Cromwell. Tuttavia, al di là delle compromissioni, Hobbes riteneva di aver compiuto un’opera di carattere scientifico, sulla base di princìpi certi e universali, e proprio per questo è plausibile che egli considerasse Cromwell (nel periodo 1650-51) il più adatto a rappresentare la figura del Leviatano. Chi altri poteva garantire «la mutua relazione tra protezione e obbedienza, dì cui la condizione della natura umana e le leggi divine (sia naturali che positive) richiedono un’osservanza inviolabile»?. E infatti, nell’incisione a stampa del frontespizio, gli individui in miniatura hanno lo sguardo rivolto verso la faccia del Leviatano, in atteggiamento di obbediente sottomissione. C’è una perdita d’effetto nei confronti del disegno, in cui meglio si esprimeva la volontà unica di popolo e sovrano, ma gli uomini si trovano di fronte alla cruda necessità di obbedire a chi è in grado di salvare la vita e il patrimonio.
Se le uniche forme pratiche di governo erano per Hobbes monarchia assoluta e dittatura, la sua proposta, in questo caso, era proprio quella di una dittatura che ponesse fine alle guerre civili d’Inghilterra, al Behemoth del lungo parlamento. Anche una forma di stato democratica, in cui cioè la sovranità risiede in una grande assemblea, finisce per trasformarsi in una dittatura. «E come un fanciullo ha bisogno di un tutore o di un protettore per preservare la sua persona e la sua autorità, così pure (nei grandi stati) l’assemblea sovrana, in tutti í grandi pericoli e turbamenti, ha bisogno di custodes libertatis, cioè di dittatori o protettori della sua autorità; essi sono come dei monarchi temporanei, ai quali essa può, per un periodo di tempo, affidare per intero l’esercizio del suo potere e ne è privata (alla fine di tale periodo) più spesso di quanto lo siano i re minorenni dai loro protettori, reggenti o altri tutori».
Eppure, mentre Hobbes scriveva il Leviathan, non si era verificato alcun episodio che potesse trovare rigorosa corrispondenza in questo testo, anche se il filosofo affrontava un problema che era certamente «nell’aria» in quel periodo. Auspicava forse una dittatura sovrana, come ha sostenuto Schmitt?
Il testo del Leviathan, sopra citato, si trova all’interno di una discussione sulle difficoltà di funzionamento della monarchia ereditaria. In quel testo, Hobbes vuol dimostrare l’impossibilità di funzionamento, nel lungo periodo, della forma di governo democratica e della sua maggior pericolosità rispetto alla monarchia assoluta. L’assemblea sovrana, nel tentativo di conservare la summa auctoritas, commissiona la propria custodia ad un dittatore. Tale soluzione, una dittatura commissaria, è simile alla forma di una monarchia temporanea, perché l’assemblea affida l’intero esercizio del suo potere (la summa potestas), per un periodo limitato di tempo, a chi è in grado di difenderla nel caso di «grandi pericoli e turbamenti». Ma accade spesso che, passato il momentaneo pericolo, l’assemblea si trovi privata di quell’auctoritasche doveva essere difesa: il titolare della monarchia temporanea può aspirare alla sovranità assoluta, perché il suo potere proviene dall’esercito di cui èstato messo al comando e non più dall’assemblea. Chi detiene il potere militare diventa dunque l’effettivo sovrano. «Infatti il potere, con cui il popolo deve essere difeso, consiste nei suoi eserciti e la forza di un esercito nell’unione delle forze sotto un comando, comando che ha perciò il sovrano istituito, perché il comando della milizia, senza altra istituzione, rende sovrano chi lo ha».
Ammettiamo pure che, in questo caso, non si possa parlare di sovranità per istituzione, ma per acquisizione, che si ha appunto quando gli uomini «per timore della morte o della prigionia, autorizzano tutte le azioni di quell’uomo o assemblea che ha in suo potere la loro vita e la loro libertà». Ebbene, in entrambi i casi i diritti di sovranità sono, per Hobbes, esattamente gli stessi. Se il titolare della dittatura commissaria garantisce protezione agli individui, essi pattuiscono tra loro di autorizzarne la sovranità a tutti gli effetti. Ecco che appare allora un nuovo e legittimo Leviatano.
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