Idealismo Tedesco

Kant compie una svolta radicale rispetto al pensiero precedente con la sua famosa “rivoluzione copernicana”. Nel momento, in cui la storia si innalza su un’onda che permette di vedere approdi più lontani, i grandi filosofi, soprattutto tedeschi, da Kant ad Hegel, riescono a scorgere possibilità decisive di liberazione e di progresso dell’umanità. Assistiamo, già a partire da Fichte, alla nascita della cultura romantica tedesca. Di solito erroneamente i filosofi dell’idealismo tedesco, Fichte, Schelling ed Hegel, non vengono inclusi all’interno del grande movimento culturale, del grande momento di civiltà del Romanticismo.La filosofia idealistica non è qualche cosa di estraneo rispetto alla cultura romantica, ma anzi ne è un momento decisivo.

Fichte   |    Schelling   |   Hegel

La grande guerra

di Roberto Sidoli, dell’Associazione Primo Ottobre di amicizia Italia-Cina

Il primo conflitto planetario imperialistico non scoppiò nel luglio/agosto del 1914 per errore umano o pura casualità: come ha giustamente notato David Stevenson nel suo libro “La grande guerra” (p. 43), la tesi della guerra per errore “è oggi insostenibile” anche solo tenendo a mente la distanza temporale di più di un mese creatasi nel 1914 tra il celebre attentato di Sarajevo e lo scoppio effettivo delle ostilità sul suolo europeo. Non fu certo una guerra divampata a “caldo”… Inoltre la prima guerra mondiale non si sviluppò certo per assenza o scarsità di processi di globalizzazione, di compenetrazione economica tra le nazioni in conflitto, anzi. Sempre Stevenson, lontano anni-luce da qualunque simpatia comunista e marxista, ha sottolineato un punto fermo ormai assodato dalla storiografia contemporanea notando che “gli anni che precedettero il 1914 conobbero livelli di interdipendenza economica che non si ripeterono più fino a ben oltre la seconda guerra mondiale” e al 1960, visto che proprio nel 1913 le esportazioni/importazioni valevano e pesavano per circa un quarto del prodotto nazionale lordo tedesco, britannico e francese di quel tempo (Stevenson, op. cit., pp. 40-41).

La guerra del 1914-18 invece scoppiò principalmente per lo scontro mortale in atto da tempo tra due gruppi imperialisti contrapposti, quello anglofrancese (e russo) e l’alleanza tedesco-austriaca, a causa del loro conflitto antagonista per il dominio politico-economico, per il controllo dei mercati, delle sfere d’influenza e delle fonti di energia/materie prime su scala europea e mondiale, risultando – come notò giustamente Lenin – una battaglia senza limiti per decidere quale delle due “bande di briganti” dovesse egemonizzare il mondo, il blocco anglofrancese o viceversa quello tedesco. Grazie anche all’eccellente studio effettuato nel 1993 da Paul Kennedy rispetto all’antagonismo anglo-tedesco nel Ventesimo secolo, persino alcuni storici anticomunisti negli ultimi decenni hanno in parte dovuto prendere atto della validità dell’analisi leninista rispetto alle cause fondamentali del primo macello planetario, focalizzando a modo loro l’attenzione sulla “weltpolitik” condotta tra il 1890 e il 1914 dai circoli dirigenti dell’imperialismo tedesco, con l’imperatore Guglielmo II in testa, in qualità di mandatario politico della frazione politica egemone in quel periodo storico all’interno della borghesia e dell’apparato statale della Germania. Ad esempio Stevenson, sulla scia di Paul Kennedy, ha posto l’accento sul piano strategico via via elaborato dall’imperialismo tedesco dal 1890 al 1914 e teso a ottenere progressivamente l’egemonia planetaria, focalizzando l’attenzione sulla “nuova iniziativa intrapresa a partire dagli ultimi anni Novanta del XIX secolo, conosciuta come politica mondiale o weltpolitik. La sicurezza continentale ora non bastava più, e Guglielmo II e i suoi consiglieri affermavano con ostentazione il diritto della Germania ad avere voce in capitolo nell’impero ottomano (dove dichiarò di essere il protettore dei musulmani), in Cina (dove la Germania acquisì un diritto sul porto di Tsingtao, nella baia di Chiao Chou) e in Sud Africa (dove Guglielmo II sostenne gli afrikaner contro i tentativi britannici di controllarli, inviando nel 1896 un telegramma di sostegno a Paul Kruger, presidente del Transvaal). La manifestazione più concreta di weltpolitik furono però le leggi navali del 1898 e 1900. Con l’approvazione del Reichstag, il ministro della Marina di Guglielmo II, Alfred von Tirpitz, iniziò la costruzione di una nuova flotta di corazzate studiate per operazioni nel Mare del Nord”. (D. Stevenson, op. cit., p. 56)

Nel 1890-1914, l’imperialismo inglese risultava da tempo come la principale potenza imperialistica su scala mondiale, a capo di una rete planetaria capillare di oppressione politica e di sfruttamento economico-finanziario che estendeva la sua sinistra tela dal Canada alla Cina e a Hong Kong, passando per buona parte dell’America Latina, dell’Africa e per il controllo dell’intero subcontinente indiano, attuali Pakistan e Sri Lanka inclusi; la weltpolitik inglese, altrettanto feroce e spietata di quella tedesca, nel periodo precedente all’estate del 1914 aveva l’obiettivo strategico di difendere a qualunque costo l’egemonia coloniale e neocoloniale (ad esempio nei confronti del Portogallo e dell’Argentina di quel tempo) britannica contro quello che dal 1898-1900 risultava ormai il suo nemico principale, l’aggressivo e sempre più potente imperialismo tedesco, anche a costo di allearsi a tal fine con un precedente e scomodo “nemico storico” dell’Inghilterra, e cioè quella Russia zarista con cui Londra aveva avviato in precedenza una sotterranea ma sanguinosa lotta (il “Great Game”) per l’egemonia sull’Asia centrale, dal 1835 al 1905.

Lo scontro internazionale, divenuto mortale e irreversibile dal 1907 in poi, tra la weltpolitik tedesca e quella speculare dell’imperialismo britannico risulta la chiave di lettura decisiva delle origini e cause principali della prima guerra mondiale: un’asse e una matrice fondamentale a cui, dal 1898 in poi, si aggiunsero e aggregarono via via anche gli altri conflitti e contraddizioni interimperialistiche, a partire da quelle esistenti tra Francia e Germania per il controllo dell’Europa occidentale (Belgio e Alsazia – Lorena in testa) e tra Russia e Austria, per l’egemonia politica-economica nei Balcani.

Anche lo storico anticomunista N. Ferguson, nel suo libro intitolato “La verità taciuta”, ha riconosciuto in parte tale “fatto testardo” ammettendo le pesanti responsabilità – spesso sottaciute, se non negate del tutto – dell’imperialismo britannico nello e per lo scoppio della prima guerra mondiale.

Andando controcorrente rispetto al trend principale della storiografia occidentale, Ferguson ha notato ad esempio che era scorretta, e in gran parte falsa, la tesi ufficiale dell’imperialismo britannico per cui i suoi circoli dirigenti – allora il governo inglese risultava di matrice liberale ed era guidato da Herbert Asquith, con al suo interno forti personalità quali Winston Churchill (ministro della marina militare britannica) e lord Grey, l’astuto ministro degli esteri di quel tempo – nei fatidici giorni compresi tra il 23 luglio e il 4 agosto del 1914 scelsero di entrare in guerra per difendere il “povero” Belgio, invaso dalla potenza militare tedesca a dispetto della sua neutralità di facciata.

Invece Ferguson dimostrò, in base alle stesse dichiarazioni di Churchill e Grey, come la posta in palio per l’imperialismo britannico risultasse assai diversa e di ben altro spessore, e cioè che a loro avviso la Gran Bretagna “non potesse, per la nostra stessa salvezza e indipendenza, permettere che la Francia fosse sconfitta come risultato di un atto di aggressione da parte della Germania”. Secondo Churchill un tiranno continentale mirava al dominio del mondo. Nelle sue memorie Grey abbracciava le due tesi. «Il nostro ingresso in guerra immediato e compatto», ricordava, «era dovuto all’invasione del Belgio». Ma la mia sensazione istintiva era che dovessimo accorrere in aiuto della Francia. Se la Gran Bretagna fosse rimasta in disparte, allora la Germania avrebbe dominato su tutta l’Europa e l’Asia minore, perché i turchi si sarebbero schierati con la Germania vittoriosa. Stare in disparte avrebbe significato il dominio della Germania, la sottomissione della Francia e della Russia, l’isolamento della Gran Bretagna, l’odio per lei sia da parte di chi ne aveva temuto l’intervento sia da parte di chi lo aveva desiderato e in ultima analisi che la Germania avrebbe avuto mano libera sul continente. Secondo K. M. Wilson questo argomento egoistico era più importante del destino del Belgio, che era enfatizzato dal governo principalmente per placare gli scrupoli di ministri di gabinetto tentennanti e per tenere l’opposizione al suo posto. Più di ogni altra cosa la guerra fu combattuta perché era nell’interesse della Gran Bretagna difendere la Francia e la Russia e impedire il consolidamento dell’Europa sotto un unico regime potenzialmente ostile”. (Ferguson, “La verità taciuta”, p. 34)

La posta in palio, come aveva notato giustamente Lenin dal suo esilio in Svizzera, paese in cui il geniale rivoluzionario russo era arrivato nell’agosto del 1914 e poco dopo lo scoppio delle ostilità, risultava pertanto l’egemonia politica ed economica su scala europea e mondiale: in una polemica del 1916 con il bolscevico Juri Pjatakov, Lenin annotò con esplicita approvazione “un eccellente definizione” (sue parole testuali) elaborata da Karl Kautsky poco prima dello scoppio della guerra, indicante che “in una guerra tra Germania e Inghilterra la questione non è la democrazia, ma il dominio mondiale, lo sfruttamento del mondo” (V.I. Lenin “Intorno a una caricatura del marxismo e all’economicismo imperialista”). Sempre evidenziando la responsabilità dell’imperialismo britannico nel lungo processo politico, militare ed economico che dal 1898 al 1914 portò all’avvio del primo conflitto mondiale, Ferguson ha sottolineato altresì come a partire dal 1905 la politica estera britannica ebbe come suo fulcro l’individuazione (corretta) dell’imperialismo tedesco come nemico principale su scala mondiale, da indebolire a ogni costo e anche alleandosi con quella Russia zarista con cui Londra si era scontrata, direttamente o indirettamente, per almeno un secolo in Europa e in Asia centrale: anche alleandosi con un nemico storico della Gran Bretagna, come ammise apertamente fin dal 1906 il sopracitato lord Grey, ministero degli esteri inglese dal 1905 al 1916.

Rispetto a tale direttiva strategica di Grey e dell’imperialismo britannico, di cui il ministro degli esteri del tempo costituiva un fedele mandatario politico, Ferguson ha sottolineato come “la diminuzione della potenza russa in seguito alla sconfitta con il Giappone e alla rivoluzione del 1905 gli rese le cose facili. In queste circostanze poté contare sull’appoggio dell’opposizione per i tagli alle spese per la difesa dell’India e in tal modo sbarazzarsi di quelli che, al Ministero della Guerra e al governo dell’India, continuavano a pensare che la Russia fosse la vera minaccia alla frontiera nord-occidentale. Trovò anche un appoggio (e assai qualificato) nel colonnello William Robertson del Dipartimento di informazione del Ministero della Guerra, che si batté contro l’aumento degli impegni militari della Gran Bretagna in Persia o al confine afghano quando la Germania era la minaccia militare più seria”. Con notevole lucidità proprio Roberston notò che “per secoli in passato ci siamo opposti a tutte le potenze che a turno avevano aspirato alla supremazia continentale; e nel contempo, e come conseguenza, abbiamo ravvivato la nostra sfera di supremazia imperiale. Un nuovo predominio sta ora crescendo, il cui centro di gravità è Berlino. Qualunque cosa ci aiuti a opporci a questo pericolo nuovo e formidabile sarebbe di inestimabile valore per noi”. Questo offrì a Grey l’occasione di attuare profondi mutamenti nella politica estera inglese.

Gli accordi immediati conclusi (tra la Russia e la Gran Bretagna) il 31 agosto 1907 riguardavano il Tibet e la Persia. Il primo divenne uno stato cuscinetto; l’altra fu divisa in sfere di influenza, il nord alla Russia, il centro neutrale e il sud-est alla Gran Bretagna. Con le parole di Eyre Crowe, la finzione di una Persia unita e indipendente doveva essere sacrificata pur di evitare qualsiasi lite con la Russia. Per secoli in passato – per usare l’espressione di Robertson – la Gran Bretagna aveva anche cercato di opporsi all’estensione russa nei Dardanelli e anche in Persia e in Afghanistan. Ora, per il bene dei buoni rapporti con la Russia, tutto questo poteva essere abbandonato. Se le questioni asiatiche si sistemano favorevolmente, disse Grey al sottosegretario di Stato Sir Arthur Nicholson, i russi non avranno guai con noi riguardo all’ingresso del Mar Nero. La vecchia politica di chiuderle in faccia gli Stretti e rinfacciarle il suo peso a ogni conferenza delle potenze sarebbe stata abbandonata, anche se Grey rifiutò di dire con precisione quando.

Allo scopo di rafforzare il ruolo della Russia di contrappeso alla Germania su terra, Grey arrivò persino a manifestare segni di incoraggiamento alle tradizionali ambizioni russe nei Balcani”. (Ferguson, op. cit., pp. 111-112).“Supremazia imperiale”; accordi russo-inglesi per la spartizione dell’Iran e del Tibet; individuazione da parte di Londra del “nuovo predominio” imperiale che “sta crescendo a Berlino” e l’asserita necessità, per l’imperialismo britannico, di “opporsi a questo pericolo nuovo e formidabile”: sembra quasi che il geniale marxista Lenin avesse avuto superpoteri tali da permettergli di conoscere in segreto le reali motivazioni strategiche degli imperialismi britannico e tedesco tra il 1898 e il 1914, quando egli iniziò a elaborare compiutamente in terra svizzera la sua analisi dell’imperialismo.

Lenin comprese infatti alla perfezione come la guerra del 1914 fosse la prosecuzione della politica con altri mezzi, con mezzi violenti (Clausewitz), e che la politica condotta dai nuclei dirigenti politici delle diverse potenze – ivi compresi gli Stati Uniti e il Giappone – dopo il 1870 e fino al 1914 fosse una politica imperialistica e “l’espressione concentrata” di precisi interessi economici della borghesia e del capitale finanziario: una tesi innegabile che è stata confermata in seguito da un secolo di altre esperienze concrete, di invasioni e occupazioni imperialistiche, di guerre più o meno sotterranee tra le grandi potenze e, non certo ultimo fattore per importanza, dal secondo conflitto mondiale.

A questo punto si può ormai passare a individuare alcune tesi e punti fermi, importanti ma di regola poco noti, del processo di analisi sull’imperialismo effettuata da Lenin.

Non mi riferisco alla sua ormai classica definizione dell’imperialismo, intesa correttamente come “stadio monopolistico del capitalismo” con i suoi “cinque principali contrassegni” e cioè:

“La concentrazione della produzione del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli (trust, multinazionali, ecc…) con funzione decisiva nella vita economica;

La fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario” di un’oligarchia finanziaria (credo che qui in Svizzera, ma non certo solo da voi, tale definizione leninista risulti ormai particolarmente chiara e veritiera…);

La grande importanza acquisita dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;

Il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali, che si ripartiscono il mondo (le multinazionali, gli istituti finanziari e le compagnie di assicurazione che operano su scala mondiale, ecc.);

La compiuta ripartizione della terra, di tutto il nostro pianeta, “tra le più grandi potenze capitalistiche” (V. I. Lenin, “Imperialismo, fase suprema del capitalismo” (cap. VII).

Dal 1914-16 fino ad oggi, un secolo intero ha mostrato la validità e l’esattezza del processo di definizione leninista rispetto all’imperialismo. Mi soffermerò pertanto su altri “anelli” e “reti” teoriche di Lenin, a partire dall’individuazione geniale da parte sua della tendenza generale allo sviluppo diseguale all’interno delle potenze capitalistiche: un tema che buona parte della sinistra “antagonista” preferisce non affrontare perché troppo legata alle tesi leniniste (non di Stalin, anche se riprese con determinazione dal leader comunista georgiano) sulla possibilità di una rivoluzione socialista in un solo paese e – a determinate condizioni – della possibile costruzione del socialismo anche in un solo paese. Lenin notò acutamente, nel suo “Imperialismo” del 1916, che la praxis concreta del 1870-1916 mostrava chiaramente come le diverse potenze imperialistiche si sviluppassero sul piano economico (e militare, militar-tecnologico, di conseguenza) con ritmi e tassi di sviluppo assai diversi, acquisendo saggi di incremento del loro potenziale globale economico (e militar-tecnologico) molto differenti tra loro: un’asimmetria profonda che non solo costituiva una realtà innegabile sul piano mondiale ma, anche e simultaneamente, una sorta di profonda “faglia tettonica”, che preparava in modo cumulativo e continuo dei veri e propri “terremoti” e dei salti di qualità rispetto al concreto rapporto di forze e alla correlazione di potenza concreta tra le diverse potenze imperialistiche, facendo in modo che alcune di esse risultassero in declino relativo rispetto ad altre, invece collocatesi via via in una posizione politicamente vantaggiosa di ascesa relativa rispetto alle prime.

Tale era il caso concreto della Germania, in ascesa rispetto alla declinante potenza mondiale “numero uno” britannica nel periodo compreso tra il 1870 e il 1914: uno studioso anticomunista come Stevenson ha ammesso ad esempio che se in termini di produzione di acciaio la Germania nel 1870 fabbricava solo la metà dell’output britannico in tale settore strategico, già nel 1913 il rapporto di forza ormai risultava rovesciato a favore dei tedeschi, con una produzione doppia rispetto a quella dell’imperialismo inglese.

La legge dello sviluppo diseguale nel 1870-1914 ridisegnò via via i rapporti di forza globali tra le diverse potenze imperialistiche, provocando nel medio e lungo periodo sia una trasformazione delle loro strategie generali e delle loro aspettative, ambizioni e appetiti politico-economici che una crescita parallela delle tensioni e degli scontri al loro interno, in una prima fase sotto forma “molecolare” (Gramsci) e in seguito attraverso un processo articolato che culminava in salti di qualità e fasi di “scoppio” esplosivo: le guerre imperialistiche, pertanto, costituiscono a loro volta uno dei sottoprodotti anche della legge dello sviluppo diseguale, assieme a quella concorrenza e conflittualità “normale” (Marx, Manifesto del Partito Comunista) esistente costantemente nei rapporti tra le diverse potenze borghesi, fin dai lontani tempi degli scontri tra le protocapitalistiche città marinare di Genova, Pisa e Venezia nel 1200/1400.. Sarebbe altresì utile  un’analisi specifica rispetto a tale tematica, come del resto sulla tesi del 1915 di Lenin (“Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”) per cui “l’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo e risulta che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente”. Sarebbe altresì utile lo studio dell’applicazione da parte di Lenin della teoria dello sviluppo diseguale anche al movimento operaio, con lo spostamento progressivo del centro di gravità rivoluzionario da occidente verso oriente: dall’Inghilterra del cartismo (1830-1846) alla Francia del 1848-1871, fino al periodo in cui dopo il 1871 ( “La terza Internazionale e il suo posto nella storia”) il movimento operaio tedesco conquistò per quattro decenni l’egemonia nel movimento operaio internazionale, quando ancora la Germania risultava assai indietro rispetto all’Inghilterra e alla Francia dal punto di vista dello sviluppo capitalistico, fino al nuovo “passaggio di testimone” rivoluzionario dalla Germania alla Russia nel 1905-1917, quando” (e per un lungo periodo…) “l’egemonia nell’Internazionale rivoluzionaria proletaria” passò alla “Russia arretrata” sul piano economico, come sottolineò Lenin nel 1919.

Strettamente collegata alla tendenza e allo sviluppo diseguale, un’altra stimolante categoria e “rete” di interpretazione leninista del processo di sviluppo/decadenza contraddittoria dell’imperialismo, con la sua continua dinamica di competizione globale (tendenza che si confronta costantemente con la controtendenza dell’interdipendenza economica tra le diverse potenze mondiali) risulta la tendenza alla distribuzione diseguale: e cioè l’asimmetria esistente nel processo di acquisizione dei “territori” e delle sfere di influenza specifiche da parte delle diverse potenze imperialistiche, in base a diseguali e mutevoli rapporti di forza.

Come notò giustamente Lenin, il processo su scala planetaria di acquisizione brigantesca e predatoria delle sfere di influenza dal 1870 si verifica sempre in base ai rapporti di forza economici e militari, diseguali e asimmetrici, creatisi via via tra le diverse potenze mondiali; correlazioni di potenza che tra l’altro via via si modificano continuamente, in base alla legge dello sviluppo diseguale sopra esaminata. Rileggiamoci il grande rivoluzionario russo quando, nel capitolo VI del suo Imperialismo, egli vide chiaramente come “tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo la spartizione del mondo fosse ormai totale. I possedimenti coloniali crebbero a dismisura dopo il 1876. Nel 1876 tre Stati non avevano alcuna colonia, e un altro, la Francia, quasi nessuna. Nel 1914 quasi quattro paesi possedevano colonie per 14,1 milioni di chilometri quadrati, cioè circa una volta e mezza l’Europa, con una popolazione di circa 100 milioni di uomini. Pertanto l’ineguaglianza dell’estensione dei possedimenti coloniali è molto grande. Se si confrontano, per esempio, la Francia, la Germania e il Giappone, che non differiscono molto per superficie e popolazione, risulta che la Francia ha acquistato come superficie quasi tre volte più di colonie che la Germania e il Giappone presi insieme. Ma la Francia all’inizio del detto periodo era assai più ricca di capitale finanziario che non, forse, la Germania e il Giappone presi insieme. Oltre alle condizioni economiche, e in base a queste, influiscono sulla grandezza del possesso coloniale anche le condizioni geografiche, ed altre Tra i sei paesi summenzionati troviamo dei giovani paesi capitalisti in rapidissimo progresso, come l’America, la Germania e il Giappone; la Russia, il più arretrato nei riguardi economici, dove il più recente capitalismo imperialista è, per così dire, avviluppato da una fitta rete di rapporti precapitalistici”.

Nel IX capitolo dell’“Imperialismo” Lenin elaborò le conclusioni – corrette e inevitabili – di tale analisi notando che “in regime capitalistico non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere di interesse e di influenza, delle colonie, ecc. che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare, ecc. Ma i rapporti di forza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc. Mezzo secolo fa” (nel 1866) “la Germania avrebbe fatto pietà, se si fosse confrontata la sua potenza capitalistica con quella dell’Inghilterra d’allora: e così il Giappone rispetto alla Russia. Si può immaginare che i rapporti di forza tra le potenze imperialistiche rimangano immutati? Assolutamente no”. In questo campo specifico, e cioè nel mutevole e contraddittorio processo di distribuzione del “bottino” e delle sfere d’influenza tra i “predatori” e i diversi briganti imperialistici, vige costantemente la dura legge dei rapporti di forza politico-militari, economico-tecnologici e finanziari, con la derivata “legge di Brenno” e il suo esplicito “guai ai vinti”: giustamente Lenin sottolineò, anche nel suo scritto “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, che “in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza”, aggiungendo subito che “per mettere alla prova la forza reale di un paese capitalistico, non c’è e non può esservi altro mezzo che la guerra”.

Sarebbe interessante nel prossimo futuro, sviluppare un’analisi comparata tra la situazione esistente nel mondo attorno al 1914 e quella attuale, utilizzando in modo creativo e non dogmatico gli splendidi criteri di analisi leninista rispetto a tematiche ancora sconosciute al grande rivoluzionario russo, quali ad esempio:

il processo di creazione su vasta scala, dopo l’agosto del 1945, di tremende armi di distruzione di massa (atomiche, chimiche e batteriologiche);

la diffusione multipolare delle armi nucleari e lo “stallo atomico” che ne è derivato, a partire dal 1945-57 e fino ai nostri giorni;

il tentativo statunitense di superare a proprio vantaggio egemonico tale particolare “stallo atomico” e la mutua distruzione assicurata (MAD) attraverso la corsa al riarmo nello spazio e le guerre stellari di Reagan, Clinton e Obama;

il declino relativo – a tratti assoluto – dell’imperialismo statunitense dal 1965 fino ai nostri giorni;

l’emergere nel 2010 di una nuova potenza “numero 1” a livello economico nel nostro pianeta, e cioè la Cina (prevalentemente) socialista, come ammesso persino da un rapporto della Banca Mondiale dell’aprile 2014;

la strategia cinese tesa ad evitare che il veloce declino e il probabile/prossimo collasso del capitalismo statunitense trascini di nuovo il mondo in un terzo e apocalittico scenario bellico-atomico, nell’”ipotesi Armageddon”;

la “controstrategia del caos” elaborata e attuata dagli attuali dirigenti politici statunitensi, tesa a creare il disordine generalizzato e a innescare con mezzi proteiformi dalle spirali, crescenti di tensione in alcune aree strategiche del globo: Siria e Iraq (con i terroristi dell’ISIS armati e foraggiati per anni dagli USA), Venezuela, Argentina (i “fondi avvoltoio” made in USA), Ucraina e l’appoggio statunitense ai nazisti della zona, isole di Diaoyu poste al confine tra la Cina e il Giappone, Hong Kong nell’autunno del 2014, ecc.;

la “guerra informatica” condotta su scala planetaria (Echelon, caso Snowden) dall’imperialismo statunitense e dai suoi alleati contro le potenze non-anglosassoni, in particolar modo la Cina;

il continuo spionaggio aereo effettuato dagli USA ai confini marittimi della Cina, provocando ad arte seri problemi con Pechino (come nel 2001 e nell’agosto del 2004).

C’è spazio per un dibattito ampio e per una profonda riflessione tra i marxisti. Voglio però subito sottolineare il dato politico centrale per il genere umano e i lavoratori di tutto il mondo, e cioè che attualmente – come nel 1913 e nei primi mesi del 1914 – il pericolo di una guerra mondiale risulta purtroppo tutt’altro che escluso, a causa fondamentalmente dell’imperialismo statunitense e dell’attuale disastrosa weltpolitik di Washington.

Dobbiamo alzare subito, e di molto, il livello di guardia e non creare illusioni tra le masse.

Forse molti compagni sono a conoscenza che nel 1914 lo studioso Norman Angell arrivò fino al punto di sostenere, in buona fede, che una guerra mondiale non risultava possibile a causa delle fitte relazioni economiche esistenti tra le diverse potenze mondiali e delle disastrose conseguenze di un eventuale conflitto bellico su vasta scala: il tutto solo pochi mesi prima dell’agosto del 1914, nel suo libro intitolato In modo involontariamente ironico “La grande illusione”. Si tratta di una “grande illusione” e di una tesi che è stata ripresa molto meno in buona fede seppur con un identico fallimento teorico, da Thomas L. Friedman nel 1999 con la sua teoria “del McDonald’s antiguerra”, tesa ad addormentare le coscienze dei lavoratori.

Secondo Friedman, infatti, non risultava possibile una guerra fra nazioni al cui interno operassero dei punti di vendita McDonald’s: dopo soli pochi mesi, tuttavia, gli USA patria dei McDonald’s bombardarono a tappeto con i suoi alleati – Italia in testa – la Jugoslavia, proprio mentre a Belgrado potevano essere acquistati e venduti da alcuni anni i prodotti della sopracitata multinazionale statunitense.

Era solo fumo negli occhi e una forma di inganno contro la volontà di pace dei popoli. Tutto questo ciarpame – come del resto le tesi sulla presunta “fine della storia”, elaborate nel 1992 da Fukujama – si è dimostrato in breve tempo solo una forma illusoria di spazzatura ideologica e culturale, ma in ogni caso bisogna sviluppare tra i giovani e i lavoratori la coscienza collettiva della gravità oggettiva dell’attuale situazione politica planetaria, contraddistinta da un sinistro disegno globale statunitense che rischia di provocare fin da subito almeno una terza guerra mondiale “spezzettata”, secondo il giudizio parziale ma interessante espresso nell’agosto del 2014 dal leader indiscusso del Vaticano.

Siamo ancora in tempo per fermare tale opzione e la deriva bellico-nucleare, soprattutto grazie al contropotere globale ormai esercitato su scala globale dai paesi Brics, con in testa la Cina popolare, ma a tal fine serve anche un nuovo livello di sviluppo della mobilitazione delle masse popolari e della classe operaia dell’Europa, possibile e utilissima ma anche se non scontata: bisogna lottare assieme e su scala europea contro i focolai di guerra e contro la dissennata corsa al riarmo di marca statunitense, accettata anche dalla borghesia europea italiana, come nel caso dei costosissimi F-35.

Come ha notato D. Stevenson rispetto al tragico 1914 e al periodo storico che preparò il primo macello mondiale, “un ciclo di preparativi militari in perenne aumento” (ripeto: un ciclo di preparativi militari in perenne aumento) “fu un elemento essenziale della congiuntura che condusse al disastro. La corsa agli armamenti era un prerequisito necessario dello scoppio delle ostilità”.

A mio avviso la lotta su scala internazionale contro le spese militari e i nuovi armamenti, a partire da F-35 e “guerre stellari”, assieme alla battaglia per spegnere i principali focolai di guerra costituiscono i due primi “anelli” della catena che devono afferrare i comunisti europei per contribuire a scongiurare il reale, concreto pericolo di guerra generalizzata che grava tuttora sul genere umano.

La finestra di Borges

di  Questo racconto  fa parte dell’antologia Panamericana, in uscita in questi giorni per La Nuova Frontiera, che ringraziamo.

– Babbo!
(De Quincey)

Essendo mio padre un ingegnere della tipologia antica, di quelli che si pensavano anzitutto come intellettuali e vedevano l’ingegneria come un complemento delle discipline umanistiche, e dunque, di fatto, una disciplina umanistica a sua volta, in casa, da sempre, vi erano più testi letterari che scientifici1.

Essendo tuttavia, e comunque, un ingegnere, egli poneva al vertice della piramide quella letteratura la quale, piuttosto che indagare il cuore e l’anima dell’uomo, cercava di circoscrivere a formula, o almeno a proiezione, quelli del mondo. La risoluzione di misteri, l’avventura a chiave, la combinatoria, il gioco letterario, il postmodernismo di marca europea, erano le sue passioni; da ingegnere, tali passioni catalogava in implicite scale di necessità e interazione, dove la chiarezza non aveva importanza minore della volontà di scendere nei recessi dell’ignoto.

Se le pendici dell’Olimpo pullulavano di personaggi tanto variegati quanto potevano esserlo Arthur Conan Doyle e Hofstadter, Cipolla e Edwin Abbott, Bartezzaghi e Stevenson e Oreste del Buono (nel fumetto, pur fedele ai dettami di quest’ultimo, apprezzava Moebius ma diffidava del suo compare Jodorowsky), il pyramidion era composto da tre nomi. In basso, guardiani della soglia, sfingi portanti e veridiche incarnazioni dei ‘‘gradi blu’’ di quell’ordine iniziatico che includeva lui solo e che, intesi già nella prima infanzia, avrebbe potuto includere me, c’erano due italiani, noti fino all’ovvio, ampiamente stimati, addirittura rassicuranti: Umberto Eco e Italo Calvino. Sopra di loro, coi piedi ben piantati sulle loro capocce a mo’ di Colosso, un argentino. Si trattava naturalmente di Jorge Luis Borges.

Si dice che il compito dei figli sia uccidere i padri, o almeno superarli, o almeno credere di averlo fatto2. Nel mio caso, visto che avrei scelto la strada delle lettere e non quella delle scienze applicate, l’onere era più lieve di quello toccato ad altri: a colpi granitici di Kafka, Joyce, Proust, Faulkner, Pynchon, era fin banale smontare le mura di gesso di Calvino, quelle di mattoni di Eco. Per giocare a detestare il primo, poi, bastava leggere le sue lettere editoriali, il Marcovaldo, prcalvino-e-j-l-borgesendere le misure della limitatezza del gioco di Se una notte d’inverno rispetto a quanto si faceva, e anni prima, in America… Per il secondo, bastava ricollocarlo nell’attuale, nell’attualità, che tutto svilisce e rende prosaico. Una firma al pur encomiabile appello contro un primo ministro corrotto, una ‘‘Bustina’’ meno riuscita, e già Eco poteva scomparire nel mucchio dei personaggi da quotidiano, da settimanale.

Tutto questo, però, con Borges non era possibile. Spunti per detestarlo ve ne erano di grandiosi: l’appoggio tacito al boia Videla, sia pure per via di un incancrenito antiperonismo; l’appoggio manifesto all’altro boia Pinochet, la frase ignobile sulla ‘‘chiarezza della spada’’ rispetto alla ‘‘illegalità della dinamite’’, detta mentre i suoi aguzzini bruciavano capezzoli, strappavano unghie, elettrificavano gengive e ferite aperte, ficcavano topi nelle vagine delle oppositrici; le parole, forse ancora più ignobili, con cui cercò di giustificarsi, messo di fronte ai crimini di quei regimi: non sapevo… Non immaginavo… Sono vecchio… ‘‘pensate a me come un cieco che non legge i giornali e che conosce poca gente…’’
Parole degne di un Priebke: vecchio cieco? Sei uno dei massimi scrittori del Novecento, brutto figlio di puttana!

Pure, non funzionava. Non v’era ignominia nel mondo reale che potesse scalfire l’edificio criselefantino del suo magistero. Immaginario, eppure più vero del vero: lo si poteva ben dire.
Il fatto era che tutta la fiducia che avevo nei libri, e dunque nel mondo, veniva da lui. Avrebbe potuto dirmi, giunto che fossi al suo cospetto, Io ti ho creato, come un Thulsa Doom al primo barbaro che ne sfida il potere. Non avrei saputo cosa rispondere e mi avrebbe scacciato, fattosi Crom, o Wotan moltiplicato dalla doppia cecità, dal Valhalla, ridendo di me.

Bimbo precoce, avevo letto Il nome della rosa e il Diario minimo, Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili3, apprezzandoli più dei libri destinati ai ragazzini della mia età, così mio padre pensò di iniziarmi. Lo fece, naturalmente, con La biblioteca di Babele. Seppi solo da adulto che era parte organica di una raccolta. Mi venne presentata come cosa a sé. Presi a leggere. Lo sguardo di mio padre, immagino, andava oltre quello ironico e compiaciuto che si scambiano i Maestri mentre il novizio è nel gabinetto di riflessione, alle prese col gallo nero, prima di giungere al sole e alla luna. Era quello di un altro custode di sole e luna, quello del vecchio freak che somministra un Super Hofmann, intero, certo, perché no, al giovane europeo recato dal fato a incontrarlo nei giardini di Ruigoord4.

E psichedelico fu del resto l’effetto del racconto su di me. Ebbe a scrivere William Gibson che leggere Finzioni fu per lui equivalente all’installazione di nuovo software. A me un solo racconto della medesima raccolta fornì di una nuova scheda madre. Fu forse un rifugio: di fronte alla complessità del mondo, ridurlo a libri, una cosa tangibile, che conoscevo e avrei potuto conoscere ancor meglio, era rassicurante. Non ancora adolescente, ecco già una discreta soluzione al problema dei problemi. Ma ho ragione di credere che vi fosse d’altro, e la realtà (che altri chiama la biblioteca) sarebbe venuta a dimostrarlo.

Non che non abbia provato, in seguito, a uccidere Borges, a lasciarmelo dietro, a sputargli in faccia o almeno credere di averlo fatto. Ricordo (di nuovo il ricordo, la sua incertezza: ma mi si lasci superarla, è del resto per tale illusione che si scrive) che quando conobbi i ragazzi della rivista dove avrei pubblicato le mie prime cose, li schernii chiamandoli figli bastardi di Borges. Era solo, va da sé, che avevano avuto la mia stessa formazione, e ciò filtrava nei loro testi, nella loro estetica; quasi per sfregio passai quasi subito a un ostentato realismo. Una volta, più tardi, avevo già pubblicato due libri e guadagnato un rispetto in quella povera cosa che è il campo letterario da poter parlare senza abbassare troppo gli occhi ai venerati della mia epoca, uno di tali maestri, canuto e segnato dalle sofferenze che gli aveva cagionato il campo medesimo, al mio fare il nome dell’argentino, mi disse ‘‘Borges è un vicolo cieco. Un bellissimo vicolo, ma cieco.’’

Il motteggio mi piacque. Mi parve convincente. Lo feci mio. Sì, superare Borges! Quel vicolo cieco che non è altro! Passare oltre, lasciarsi alle spalle giochetti e orologerie! Guardare ai veri giganti, ai misteri insoluti, insolvibili, o alle verità stabilite dagli antichi, prone alla permutazione solo perché in fin dei conti immuni a ogni corruzione.

Un anno dopo, però, pubblicai ancora un libro, e in exergo mi scoprii a porre Calvino. Le città come i sogni… Calvino! Ancora non avevo superato costui, la sua biciclettina, il suo tavolo nell’ufficio torinese, il suo sorriso furbetto, e volevo prendermela con Borges? Col Venerabile Jorge (quanto sorrideva, mio padre, all’idea di ritrovarlo, per mano di Eco, a fare la parte del cattivo in quel monastero benedettino…)? Pretesa ridicola. Il vicolo, compresi, non era cieco. C’era una parete in fondo, ma si poteva essere sicuri che non avesse finestre?  C’era una tecnica difficile, forse impossibile, da superare; ma da ogni suppellettile, da ogni libro sui suoi scaffali (non serve spiegare che vicolo, in un simile caso, voleva dire anche corridoio di biblioteca), forse anche dalle crepe dei suoi muri, a ben guardare, si dipartivano universi.

Lasciarmi dietro Borges: pretesa tanto più ridicola, rifletto oggi, per chi come me non per una volta (per una volta capita a tutti) ma per due, si era perduto nel labirinto.
Chi crede nel dogma recente della psicanalisi li chiama ‘‘ricordi di copertura’’: certo è che durante l’adolescenza, e ancor più durante la giovinezza, tali e tante sono le suggestioni da cui abbeverarsi, le strade il cui solo potenziale inebria l’anima (salvo poi non sceglierne magari alcuna e stare a cazzeggiare al bar per anni: è anche questo il bello di quell’epoca della vita), i desideri e gl’incontri terreni e gli entusiasmi, che facilmente si stende una cappa sottile ma immediata e scurissima sugli eventi in cui si vacilla o si è vacillato, sospesi in quell’area liminale che divide il non vero dal vero, o meglio il potenziale infinito dall’attuale che si sceglie di vedere.

Solo adesso, solo ora che, trovandomi nell’incombenza di scrivere un racconto su Borges5, ho ripreso in mano tutti i suoi libri, Finzioni, L’Aleph, Il libro di sabbia e tutti gli altri, li ho riletti e chiosati e nuovamente ammirati alla luce delle letture fatte negli anni, tali ricordi sono tornati a manifestarsi.

Il primo6, è ovvio, e mi rendo conto quante volte finora ho usato le parole ‘naturalmente’, ‘ovvio’, ‘ovviamente’, ma sa ormai il lettore in quale territorio, in che tipo di meccanismo matematico ci troviamo, fu una biblioteca. La biblioteca di Montevarchi! Difficile immaginare luogo meno enigmatico; pochi al mondo, i dedali più miserandi. Tre piani più una stanzuccia sotterranea, un bibliotecario grassoccio, non cieco ma solo dotato di spesse occhiaie, sempre con l’aria di conoscerne ogni anfratto (non ebbe del resto mai il problema di dover viaggiare per esagoni ed esagoni, per infinite leghe), e noi pigri lì nella sala studio a scambiarci foglietti con battute sulle ragazze o i tizi ridicoli che ci sedevano intorno… Pure, in quel luogo, come del resto in ogni biblioteca – era forse questo il suo scopo quando decise di scrivere e pubblicare dei libri –, Borges incombeva. 860fda41906f28b2de88812c3122515b
Si manifestò nel primo, o secondo, o terzo, o quarto, o seicentonovantaseiesimo piano, nella forma della serie di volumi La biblioteca di Babele da lui curata per Franco Maria Ricci, che in virtù dell’incontro con costui si credette, e quindi fu, reincarnazione di Dedalo: sottili volumi azzurrini o turchesi o color bottiglia, collana di letture fantastiche curata da J.L.B.: scoprii Léon Bloy, ebbi conferma di Poe, mi fu restituito Voltaire…

Il lettore non capirà il peso di quell’incontro se prima non chiarisco un fatto: dieci e più anni dopo quell’infanzia di letture infinite, avevo traversato le aule del liceo assorto in altri, ancor più astratti interessi, e quel che mi restava dell’amore per una certa letteratura lo sublimavo in altre combinatorie e altri transfert: il gioco delle carte; quello di proiezione e di ruolo, svolto settimanalmente in una stanza dei ‘‘fondi’’ dei miei genitori7; per un breve periodo il teatro; al massimo la psiconautica. La scoperta di quella collana in fondo all’apparentemente circoscritto labirinto montevarchino segnò quindi per me un secondo inizio. Quindi, un primo perdermi, senza mio padre a far da mistagogo, nel dungeon dei libri.

Non so quanti esami di Legge persi per strada: abbastanza da ricevere la lettera di coscrizione, ma anche abbastanza da leggere tutti quei trentatré volumi, e di lì – formavano del resto una stanza centrale, circolare, con mille porte – tracimare ovunque negli infiniti piani della biblioteca: Dostoevskij e Tolstoj, Sterne e Yates e Eliot, Rimbaud e Baudelaire e Maupassant e Flaubert si appropriarono del mio orizzonte, e quando parvero lasciare la presa era solo per lasciar spazio ai contemporanei, ai giganti che, scoprivo non senza sgomento, davvero potevano camminare fra noi…

Qualche mese fa ho ricevuto un invito a presenziare, con un discorso, all’inaugurazione della nuova biblioteca del mio paese natale. Tanto minuscolo è il paese che nella lettera mi si poteva già indicare come il suo più rilevante scrittore, titolato dunque a esserne alfiere, o addirittura nume, qualora si volesse concedere il piacere novecentesco della celebrazione dei libri. La nuova biblioteca è molto più bella della precedente. Ha anche più mistero, posta com’è in quello che fu un monastero risalente addirittura al settimo secolo, ma quando vi sono entrato per pronunciare le usuali bestialità che all’‘‘intellettuale’’ si chiedono in questi casi (spero di aver salvato almeno in parte la dignità ricordando proprio la scoperta di quei volumi, proprio Jorge Luis B., il bibliotecario) capii che il labirinto era ormai altrove.

E fu lì, in effetti, che per la prima volta ricordai l’altro labirinto, quello dell’infanzia. I ‘‘fondi’’, quel complesso cantina-garage-ripostiglio-cucina aggiuntiva-stanza di servizio-stanza della caldaia che stava sotto la casa in cui ero cresciuto, e che però, per via della presenza nel medesimo edificio della casa dei miei nonni, identica e speculare a quella dei miei, si raddoppiavano a loro volta sullo stesso livello sotterraneo, dando vita a un complesso molteplice e perturbante.

Capii di essere in un labirinto a nove anni, sebbene lo ricordassi solo allora, e lo ricordi nuovamente adesso. Passare da casa dei miei a quella dei miei nonni e viceversa, aprire la porta a vetri, scendere le prime scale con la stampa del gatto, svoltare, terminare le scale, svoltare (non verso la cucina e la cantina: dall’altra parte), passare per il garage dei miei, girare la chiave della porta di separazione, traversare la stanza piena di tavoli e ziri e disegni inquadrati dei più abili alunni di mia nonna, continuare senza aprire la porta bianca, di legno, con un personaggio tra l’Humpty Dumpty e lo gnomo disegnato a pennarello (‘‘da un amico della zia, durante una festa’’, mi si riferiva, all’espressione delle mie curiosità infantili: una festa, lì?) e mai cancellato fino in fondo – l’indelebile blu resisteva protervo all’acqua ragia di mio nonno – virare sulla destra per l’altra cucina, superare la piccola biblioteca d’angolo, tutta gialli Mondadori e polvere e ragni, salire le scale, già immaginando quelle di marmo rosa che erano poi l’ingresso della casa dei progenitori…

Fare quel percorso era la norma, questione di ogni giorno, avanti, indrìa, Mi vai dalla nonna a prendere due uova, del sale, della farina? Ma quella volta realizzai la stranezza di un fatto: la parete a sinistra delle ultime scale dei fondi aveva una finestra. Ora, a destra di finestre ce n’erano varie: piccole, dal vetro zigrinato, mai aperte, infestate esse pure di ragni e mezze nascoste da cactus malaticci per la carenza di luce. Ma erano quelle che davano sull’esterno. La finestra rettangolare a sinistra non dava su niente, se non sul precedente pezzetto di corridoio, il suo armadio, l’inizio della biblioteca che poi faceva angolo.

L’elemento architettonico superfluo, assurdo. Idea balorda di mio nonno, imposta ai muratori forse per ‘‘dare luce’’, oppure stigmate del labirinto, segnacolo della Città degli Immortali? Da anni passavo dall’una all’altra casa senza rendermi conto che l’inquietudine che provavo ogni volta (specie al ritorno: specie al ritorno) era quella di un Asterione.

Ci passo oggi: anni di letture ‘‘realistiche’’ mi impongono, per meglio completare quanto vado scrivendo, di tornare a controllare i luoghi dei fatti, fissarli un’ultima volta nella memoria, specie adesso che i miei nonni non sono più e i miei genitori si preparano, ed è tutto un brulicare di muratori stranieri per casa, per le due case, per il labirinto, a trasferirsi di sopra, oltre le scale rosa che sono, mi è chiaro adesso, il cancello del cielo che io stesso domani dovrò prepararmi a varcare; ci passo oggi e ritrovo, con quella finestra rettangolare, inspiegata, l’enigma. Vagheggio il traversarla direttamente, lo scavalcarla; poi realizzo essere adulto, la bastevolezza del fare la strada a ritroso, di svoltare l’angolo, ottenendo i medesimi effetti.

Giungo così alla piccola biblioteca, non più di cento volumi, tutti gialli, qualche Urania, addirittura dei Diabolik di mia zia ragazzina, di fatto messi lì solo perché non trovavano posto altrove: eppure per la prima volta cerco al suo interno, con gli occhi e le mani di chi ha ragionevoli motivi per pensare di trovare un volume specifico. E infatti eccolo, non quello di mio padre, dato che era, e immagino sia, ancora al suo posto, ma quello di mio nonno, il Meridiano di Borges, impolverato, senza più la custodia, ma intonso, probabilmente mai aperto. Confesso che ho sperato, soffiando via le ragnatele, scacciando la tegenaria appollaiata subito dietro, che aprendolo si rivelasse di sabbia. Lo aprii: era di polvere. Mi si disfece tra le mani. Con esso mi vidi dissiparmi e quindi lo fui.

Consegno queste pagine al curatore dell’antologia cui sono destinate, nella speranza di una loro pubblicazione in volume, la quale, vogliano i numi, porti alla collocazione in almeno una biblioteca (e quindi in tutte).