KANT E IL CONCETTO DI FINALISMO

di Paolo Salandini*

Kant riconosce di aver scritto la Critica del Giudizio (più letteralmente Critica della facoltà del giudicare) per gettare un ponte tra la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica. Da cosa era costituito il fossato che secondo il filosofo tedesco separava nocivamente il mondo del soggetto conoscente da quello della soggettività agente? Questo fossato era stato in effetti scavato dalla stessa struttura fenomenica del mondo naturale così come emergeva dalla prima Critica: un orizzonte fisico fatto di leggi meccaniche, di necessità normativa, di rigidità geometrico-matematica, le quali rischiavano di compromettere gravemente la realizzazione di quel ‘Regno dei fini’ (Reich der Zwecke) che rappresenta all’interno della filosofia kantiana lo scopo ultimo dell’azione umana come azione libera; la libertà, vale forse la pena ricordarlo, costituisce per Kant l’essenza noumenica del mondo.

La mutata visione della natura
Nell’introduzione del 1959 all’Edizione del Centenario delle Opere di Bergson, il filosofo francese Henri Gouhier afferma di voler mantenere fermo un punto in particolare della sua interpretazione del pensiero bergsoniano, vale a dire il cambio di paradigma che dal modello geometrico-cartesiano della natura conduce, grazie alla riflessione dell’autore dell’Evolution créatrice a un modello biologico. Ciò rappresenterebbe il contributo più importante e rivoluzionario con cui Bergson modifica la cartografia concettuale del pensiero filosofico moderno e contemporaneo. Ora, perché questo è rilevante rispetto al pensiero kantiano? Proprio perché è in realtà con Kant e con la sua analisi dell’orizzonte teleologico del mondo dei fenomeni naturali che ha inizio questa svolta dal meccanicistico-geometrico al vivente-finalistico.

Orizzonte naturale e libertà umana
Il ‘Regno della natura’ (Reich der Natur) sembra però opporsi radicalmente all’attuazione del ‘Regno dei fini’, come Kant ricorda anche nella seconda sezione della Fondazione di una metafisica dei costumi (cfr. in particolare i parr. 97-111). In questo scritto che, nell’intenzione dell’Autore doveva rivestire una funzione introduttiva-divulgativa del suo pensiero etico-pratico espresso compiutamente tre anni dopo nella seconda Critica, Kant precisa che per ‘Regno’ (Reich) egli intende “il legame sistematico tra gli esseri dotati di ragione tramite delle leggi obbiettive comuni”. Ora, gli esseri ragionevoli sono, in forza della loro stessa ragione, degli esseri capaci di porsi dei fini e, sul fondamento incondizionato di questa medesima ragione, di essere dei ‘fini in sé’ (Zwecke an Sich). Così può essere definito ‘Regno dei fini’ quel sistema che comprende sotto un’unica e medesima legislazione i fini degli esseri dotati di ragione, che sono essi stessi fini in sé, cioè dei fini che questi esseri ragionevoli prospettano sotto la condizione di rispettare in se stessi e nei loro simili la dignità di essere fini in sé. E’ proprio in questa fondamentale qualità di fine in sé che ogni essere ragionevole deve considerarsi anche come l’autore della legislazione che genera il ‘Regno dei fini’. In altre parole, egli deve reputare la propria essenza come libertà. Certo, per Kant il ‘Regno dei fini’ non è una realtà effettivamente esistente, bensì un ideale; ma un ideale pratico, vale a dire che può essere realizzato attraverso l’esercizio della libertà umana.

La Critica del giudizio: bellezza e finalismo
Tornando alla pietra d’angolo della nostra analisi e cioè al ponte che Kant ritiene necessario gettare tra la prima e la seconda Critica, la questione riguarda l’esigenza di rielaborare il fenomenico ‘Regno della natura’ così come esce dalle pagine della Critica della ragion pura, in modo tale da non far sì che esso costituisca un’inoltrepassabile gabbia necessitante in vista dell’esplicarsi della libertà umana. E’ noto come nella Critica del giudizio il filosofo di Königsberg tratti congiuntamente la tematica estetica e quella teleologica, cioè finalistica. Ciò potrebbe apparire un po’ fuorviante alla luce della tradizione idealistica e storicistica successiva. Bisogna però ricordare come la stessa cosa dovesse risultare pienamente accettabile dai contemporanei di Kant: per esempio Goethe, grande artista quanto profondo naturalista, lodò altamente la terza Critica, dimostrando, al contrario, una certa freddezza per le altre opere kantiane. In realtà è da mettere in evidenza la modernità dell’intuizione kantiana di un accostamento tra la natura che opera nell’arte e l’arte che opera nella natura. In altri termini: da un lato la bellezza è come dimensione universalmente diffusa nella natura, dall’altro è la teleologia in quanto considerazione della natura come progetto razionale e finalistico. In tal senso si capisce l’affermazione kantiana sulla teleologia come “modo di considerare gli oggetti della natura secondo un principio particolare” (Critica del giudizio, par. 28). Il principio a cui fa riferimento Kant è il concetto della causalità della natura secondo uno scopo. Come è noto la teleologia è un principio regolativo e riguarda i giudizi riflettenti, e non può quindi rivestire il ruolo di principio costitutivo per i giudizi determinanti. Il giudizio teleologico entra perciò in gioco là dove si rivelano insufficienti le leggi di una causalità puramente meccanica. Non è di conseguenza possibile per Kant ipotizzare una teleologia fisica che produca una conoscenza concettualmente determinata, ciò perché la natura non ci dice nulla riguardo al suo ‘scopo finale’. Nondimeno questo non impedisce il legame intrinseco tra teleologia fisica e teleologia morale che costituisce appunto la struttura portante di quel ponte tra ‘Regno dei fini’ e ‘Regno della natura’ di cui si è detto.

Il giudizio teleologico
Il giudizio teleologico riflette sulle condizioni sotto le quali un fenomeno naturale sia da giudicarsi secondo l’idea di uno scopo finale della natura, pur non potendo trarre dalla natura in quanto oggetto di esperienza alcun principio oggettivo che ci autorizzi a determinare a priori una relazione con scopi incondizionati della natura stessa. Il giudizio teleologico è quindi “il giudizio sulle finalità nelle cose della natura”, senza però possibilità di determinazione scientifica, in quanto puro giudizio di riflessione. Il concetto di finalità della natura, precisa ancora Kant, consiste nel rappresentarcela “come se ci sia un intelletto che possa contenere il principio che dia unità al molteplice delle leggi empiriche di essa” (Critica del giudizio, Introduzione), e serve perciò a riflettere su quella concordanza universale tra la totalità dei fenomeni che resta empiricamente inverificabile. Il filosofo tedesco in definitiva rifiuta la spiegazione dell’unità e della finalità naturali in termini univocamente meccanici, introducendo così una riflessione sul finalismo, che pur non rivestendo un significato esplicativo renda però possibile la fondamentale integrazione tra il piano necessitante della natura fenomenica con l’attuazione della libertà umana.

*Insegna filosofia all’Educandato Statale ‘Agli Angeli’ di Verona; è docente a contratto di Terminologia filosofica all’Università San Raffaele di Milano e visiting professor all’Università di Bari. Tra i suoi ultimi lavori: La permanenza e l’inquietudine. Per una storia obliqua della filosofia (Milano, 2008); Hegel. Biografia dell’assoluto (Roma, 2008).