William Wordsworth

William Wordsworth (Cockermouth, 7 aprile 1770Rydal Mount, 23 aprile 1850) è stato un poeta inglese.

Assieme a Samuel Taylor Coleridge è ritenuto il fondatore del Romanticismo e soprattutto del naturalismo inglese, grazie alla pubblicazione nel 1798 delle Lyrical Ballads (Ballate liriche), primo vero e proprio manifesto del movimento in Inghilterra[1]. L’amico Coleridge vi contribuì con La ballata del vecchio marinaio (The Rime of the Ancient Mariner), che apriva la raccolta nella prima edizione (chiusa da Tintern Abbey). Benché il poema postumo The Prelude (Il preludio) di Wordsworth sia considerato il suo capolavoro, sono in realtà le Ballate liriche ad influenzare in modo determinante il paesaggio letterario ottocentesco.

Il carattere decisamente innovativo della sua poesia, ambientata nella cornice suggestiva del Lake District, nel nord del Cumberland, sta nella scelta dei protagonisti, personaggi di umile estrazione tratti dalla vita di tutti i giorni, e di un linguaggio semplice e immediato che ricalca da vicino la loro parlata[2].

Da considerare di eguale (se non maggiore) importanza per la letteratura romantica inglese è la Prefazione alla raccolta aggiunta all’edizione del 1802, di fatto un vero e proprio saggio critico in cui sono esposte le idee-cardine della poetica romantica[1].

Wordsworth, Coleridge e Southey, che si ispirarono alla medesima cornice paesaggistica dei Laghi, furono denominati Lake Poets, poeti laghisti. Iniziatori di quello che è passato alla storia come romanticismo etico (17981832), essi ne costituirono la prima generazione, mentre nella seconda si possono annoverare George Gordon Byron (17881824), Percy Bysshe Shelley (17921822) e John Keats (17951821)[1]. Il romanticismo più tardo (18321875), persa la spinta rivoluzionaria e innovativa dei predecessori, ripiega generalmente su posizioni moralistico–didattiche (a cui può riferirsi anche l’ultimo Wordsworth): per questo esso è ritenuto parte del compromesso vittoriano.

Vita[modifica | modifica wikitesto]

Wordsworth rivoluzionario[modifica | modifica wikitesto]

Wordsworth dipinto da Benjamin Robert Haydon.

L’ambiente parigino lo portò a sposare gli ideali anarchici e libertari di tanti pensatori ribelli e antimonarchici dell’epoca: basti ricordare William Godwin, marito di Mary Wollstonecraft madre di Mary Shelley che scrisse la famosa Vindication of the Rights of Women (Rivendicazione dei diritti delle donne). Spinto dalle stesse idee, egli ripudiò non solo la fede cristiana ma anche l’istituzione della famiglia e del matrimonio, intrecciando relazioni con diverse donne, e in particolare con Annette Vallon di cui si innamorò.

Da lei ebbe una figlia, Caroline, nel 1792. Nel 1793 Wordsworth esprimeva apertamente le proprie convinzioni politiche in A Letter to the Bishop of Llandaff (Lettera al vescovo di Falstaff), in cui sosteneva l’ateismo e la causa rivoluzionaria, lodando l’esecuzione di Luigi XVI di Francia. Coinvolto nelle lotte intestine nelle file dei girondini a fianco del capitano Beaupuy, rischiò di perdere la vita quando Robespierre represse nel sangue la loro fazione. L’anno successivo pubblicò le sue prime raccolte di poesie: An Evening Walk (Una passeggiata di sera) e Descriptive Sketches (Bozzetti descrittivi)[3].

Ritorno in Inghilterra[modifica | modifica wikitesto]

Presto però gli eccessi del Terrore e poi l’imperialismo napoleonico che si rivolse contro l’Inghilterra lo spinsero a ritornare in patria, abbandonando la donna che tanto amava. Ma ne riconobbe la figlia e mai si dimenticò di loro, visitandole nel 1802 accompagnato dalla sorella Dorothy. Quando, grazie al successo delle Lyrical Ballads e al saldo di un debito di 4500 sterline alla morte del conte di Lonsdale (che questi aveva evitato di pagare anni prima lasciando in difficoltà la famiglia), poté finalmente godere di un certo agio, inviò ad Annette e alla figlia tutto il denaro necessario per il loro sostentamento.

Matrimonio con Mary e incontro con Coleridge[modifica | modifica wikitesto]

Nello stesso anno della visita ad Annette sposava Mary Hutchinson, fatto che segnò definitivamente la sua separazione dalla Francia e da Annette. Testimonianza di questo trauma profondo è il dramma The Borderers (1795). Quell’anno segnò tuttavia una tappa determinante per la sua futura produzione poetica. Fu proprio allora, a Bristol, che conobbe Coleridge, causa del suo avvicinamento alla filosofia di Immanuel Kant e all’idealismo tedesco.

Le Lyrical Ballads[modifica | modifica wikitesto]

La straordinaria sensibilità della sorella Dorothy, elemento di mediazione essenziale nel suo dialogo con la natura, fu altrettanto importante: risultato di questa sinergia furono le Lyrical Ballads (1798), pietra miliare della poesia romantica inglese: opera-chiave della raccolta è Tintern Abbey, in cui il poeta già abbozza la storia del proprio sviluppo sentimentale, mentre Coleridge collaborò al volume con quattro poesie, fra cui la fortunatissima Ballata del vecchio marinaio, che sebbene possano sembrare diverse in realtà non si distaccano molto né dal soggetto né nello stile generale dell’opera. Primo manifesto dell’estetica romantica è da considerare inoltre il Preface to Lyrical Ballads (Prefazione alle Ballate liriche), allegata all’edizione del 1800 e ulteriormente arricchita nel 1802, in cui Wordsworth espone nei particolari la sua teoria romantica che rivoluzionò tanto i contenuti quanto il linguaggio poetico inglese, e non solo. Di quest’epoca sono anche i cosiddetti Lucy Poems, pubblicati separatamente tra il 1800 e il 1807. Dedicati a una donna morta in giovane età (in cui alcuni critici hanno visto la figura di Margaret Hutchinson, sorella minore di Mary), rendono sinteticamente il culto della fanciullezza, dell’ingenuità e del candore che permettono l’avvicinamento allo stato di natura perso nel passaggio dalla infanzia all’età adulta e dal mondo rurale a quello cittadino e industriale e la visione panteistica della natura di Wordsworth.

Separazione da Coleridge[modifica | modifica wikitesto]

La divergenza di intenti e di interessi — Wordsworth pervicacemente attaccato alla vita degli umili, poi incline a posizioni più conservatrici sia sul piano poetico che politico e sociale, mentre Coleridge lasciava la poesia per la filosofia (rifacendosi all’idealismo tedesco) e la ricerca simbolica — e alcuni malintesi personali determinarono una rottura verso il 1810, dovuta anche alla dipendenza di Coleridge dall’oppio[4].

Il romanticismo segnò il superamento del razionalismo settecentesco di matrice classica — le Ballate mostrano una natura vibrante di profonda spiritualità e di una sensualità ben lontana dalla distaccata e algida dea ragione esaltata dagli illuministi — tuttavia in Wordsworth non si persero la sensibilità democratica e la spontanea simpatia che, secondo lo spirito rivoluzionario francese, vennero dirette verso le classi disagiate ed indigenti.

Maturità: il Wordsworth reazionario[modifica | modifica wikitesto]

William Wordsworth

Ma l’orientamento politico di Wordsworth era destinato a mutare: l’ascesa al potere di Napoleone, incoronato imperatore nel 1804 segnò l’inizio di un duro (e lungo) periodo di guerra con l’Inghilterra, stretta anche dalle tenaglie del “blocco continentale“. Wordsworth, che proprio nella Francia aveva visto l’emblema della democrazia e della libertà, si sentì come tradito e cominciò a ripiegare gradualmente su posizioni moderate e infine conservatrici[3] (soprattutto dal 1808 in poi), fino a riabbracciare la religione anglicana e la monarchia col compromesso vittoriano.

Il tragico 1805 fu segnato tra l’altro dalla morte del fratello John, capitano annegato in mare, ed era destinato a incidere profondamente sulla sua vita come la sua poesia futura: ultimò il Poem to Coleridge (poi pubblicato postumo nel 1850 dalla moglie col titolo The Prelude, il suo poema narrativo più famoso), parte autobiografica scritta a mo’ di introduzione per The Recluse (Il recluso), progetto di lungo poema filosofico di cui The Excursion (L’escursione, 1814) doveva costituire la seconda parte (la terza non fu mai scritta).

Herbert Read ha letto nell’avversione del poeta alla Francia e alla Rivoluzione una vera e propria rimozione psicologica con cui Wordsworth avrebbe represso il dolore per la separazione da Annette e da un Paese che tutto sommato non avrebbe smesso di amare: se la Francia, con la giovane Annette fu la sua amante, disse Read, l’Inghilterra con Mary ne diventò la moglie. Fedele al suo matrimonio come alla monarchia che lo tutelava, egli negò la spinta liberatrice della natura, vedendo piuttosto in essa l’ordine e l’autorità di un austero Dio patriarcale: «ed ecco dove il Wordsworth cessa di essere romantico, dove la sua democratizzazione dell’eroico non è più rivoluzionaria: ché nelle creature che egli addita come esemplari non è più la ribellione che egli trova, ma l’obbedienza a una legge» (Praz).

Nel 1807 pubblicava Poems in Two Volumes, contenente tra l’altro la famosa Ode: Intimations of Immortality from Recollections of early Childhood (“Ode: intuizioni di immortalità nei ricordi dell’infanzia”) e I Wandered Lonely as a Cloud. A parte alcuni viaggi, in Germania (1798), in Belgio (1828), nei Paesi Bassi (1823) e in Italia (1820 e 1837), Wordsworth condusse una vita ritirata segnata da non poche sventure domestiche: alla morte del fratello si aggiunsero, qualche anno dopo, quelle di due dei suoi cinque figli, Thomas e Catherine (1812), e in seguito l’infermità che rese paralitica l’amatissima Dorothy nel 1829. Paradossalmente, fu allora che egli si trovò al culmine della celebrità e dell’agiatezza, arrivando ad essere insignito del titolo di poeta laureato nel 1843[3] (succedendo a Southey che era morto in quello stesso anno). Morì a Rydal Mount, dove viveva dal 1812, il 23 aprile del 1850. Il suo corpo fu tumulato nel cimitero di St. Oswald a Grasmere, tra i laghi che aveva amato così profondamente.

Poetica e modernità di Wordsworth[modifica | modifica wikitesto]

Significato delle Lyrical Ballads[modifica | modifica wikitesto]

La rivoluzione romantica arriva in Inghilterra con le Lyrical Ballads. Vero è che autori di tendenze apertamente romantiche (come Blake)[1]avevano preceduto di qualche decennio Wordsworth e Coleridge, e che la sensibilità romantica, un po’ come tutti i movimenti, non si stacca mai interamente dalla tradizione immediatamente precedente: infatti, il romanticismo si sviluppa da quella riscoperta della sensibilità che pervade la letteratura settecentesca fin dalla seconda metà di quel secolo per arrivare a Rousseau e alla Rivoluzione Francese.

La grande voga delle ballate “popolari”, che il vescovo Percy e il McPherson presentano come riscoperte o attinte alla tradizione popolare ma in realtà scritte o ampiamente manipolate dagli autori, tradiscono già il desiderio del pubblico di una poesia ispirata a motivi popolari e arcadici. Opere come le Night Thoughts (Meditazioni notturne) di Edward Young e la Elegy Written in a Country Churchyard (Ode scritta in un cimitero campestre) di Thomas Gray per i defunti senza nome perché appartenenti agli strati più umili della società costituirono le fondamenta su cui crebbe la poesia romantica del secolo successivo. Non è un caso che Wordsworth riunisca con il nome di ballate la nuova raccolta, anche se le premesse su cui si articola il suo discorso sono ben diverse.

Nella prefazione del 1802 egli scrive

(EN)« the language of such Poetry as I am recommending is, as far as is possible, a selection of the language really spoken by men » (IT)« la lingua di tale Poesia quale io raccomando consiste, per quanto possibile, in una selezione della lingua com’è davvero parlata dalla gente »

Notevole per quel tempo è l’abbandono, apertamente dichiarato, della dizione poetica settecentesca ispirata al modello classicista che Pope aveva definito nature to advantage dress’d, abbandono non motivato tanto da criteri estetici, quanto etici, ora riconosciuti fondamentali.

La scrittura di Wordsworth è infatti ispirata da un desiderio di concretezza e spontaneità, oltre che da quella sensibilità democratica a cui si accennava sopra: il poeta romantico è definito

(EN)« a man speaking to men: a man, it is true, endued with more lively sensibility, more enthusiasm and tenderness, who has a greater knowledge of human nature, and a more comprehensive soul » (IT)« un uomo che comunica ad altri uomini: un uomo, veramente dotato di una più acuta sensibilità, di maggiore entusiasmo e sentimento, che ha una maggiore conoscenza della natura umana e un’anima capace di maggiore comprensione. »

La poesia di Wordsworth è però solo apparentemente artless, senz’arte: il poeta padroneggia sapientemente il blank verse già ampiamente utilizzato dalla tradizione inglese (lo troviamo già nel Teatro elisabettiano), il che gli permette di evitare la rima e utilizzare lemmi ed espressioni popolari, con l’effetto di imitare la parlata comune[2]. Diversamente da Pope e Dryden, l’arte qui è sapientemente dissimulata, non sfoggiata, ridotta all’indispensabile, perché qui il messaggio poetico sta non tanto nella forma quanto nel contenuto. Il pubblico di Wordsworth non è più la corte, ma investe tutte le classi sociali, maggiormente sensibili a una poesia svecchiata dalle forme arcaiche e più vicina ai sentimenti della gente.

In questa sua scelta linguistica egli si pone all’opposto di Coleridge che, al contrario, rimaneggia la ballata popolare senza rinunciare ad arcaismi, con un’attenzione ancora settecentesca per la rima[5]. D’altra parte Coleridge stesso considerava la quotidianità e l’umiltà del soggetto poetico incompatibili con una poesia che volge lo sguardo al soprannaturale o all’esotico: il bello e il sublime non potevano identificarsi con la vita comune, perché nel presente e nell’Inghilterra industriale vedeva una minaccia ai valori fondamentali dell’uomo. I due poeti si consideravano ambedue investiti di una missione spirituale: per i romantici la poesia è “più della pura e semplice messa in versi di verità filosofiche: il poeta era anche il profeta, e non si limitava a trascrivere verità ricevute da altri ma era egli stesso l’iniziatore alla verità” (Anthony Burgess).

Troviamo, sempre nella prefazione alle Lyrical Ballads, anche un’importante definizione di quella che fu, secondo Wordsworth, la poesia romantica:

(EN)« I have said that poetry is the spontaneus overflow of powerful feelings: it takes its origin from emotion recollected into tranquillity » (IT)« Ho detto che la poesia è lo spontaneo straripamento di potenti sensazioni: prende origine dall’emozione ricondotta nella tranquillità »

Questo significa che le emozioni e le sensazioni provate in un particolare momento, saranno poi necessarie al poeta come soggetto della sua poesia, una volta che egli si sarà ricondotto all’ordinaria tranquillità. Quindi è duplice il messaggio che otteniamo da questo passaggio: innanzitutto abbiamo una fondamentale informazione su quale sia il soggetto fondamentale della poetica di Wordsworth, o più in generale di quella romantica: le sensazioni e le emozioni; inoltre otteniamo anche la definizione di poesia come mezzo necessario per far rivivere quelle emozioni e sensazioni altrimenti impresse solamente nel proprio ricordo.

Il valore del ricordo: Tintern Abbey[modifica | modifica wikitesto]

Ma mentre, come si diceva, l’amico vede la poesia come fuga dalla realtà, Wordsworth offre ai suoi lettori un modo per dialogare con il presente e la società: anche se la sua poesia si ambienta nella cornice selvaggia e rupestre dei laghi inglesi, essa è anche una recollection in tranquillity[2], letteralmente “ricordo nella quiete”, di personali esperienze vissute nella natura che arricchiscono chi vive costretto dalla realtà della metropoli industriale: Il poeta non è solo colui che percepisce il messaggio della natura grazie alla sua particolare sensibilità, ma anche chi lo sa codificare in modo da evocare in chi legge le sue stesse esperienze visive, uditive, tattili: nella poesia più famosa della raccolta, Tintern Abbey, egli dice:

(EN)« …again I hear
These waters rolling from their mountain-springs
With a sweet inland murmur »
(IT)« …sento di nuovo
queste acque che scorrono dalle sorgenti montane
portando in sé il dolce rigoglio delle viscere della terra. »

È impossibile rendere perfetta questa poesia in lingua italiana, anche per il valore onomatopeico di certe parole, in cui le consonanti liquide e nasali sembrano echeggiare lo scorrere e il cadere dell’acqua (rollingspringsmurmur). La rievocazione di passioni ed emozioni anche estinte da tempo sta soprattutto nel ruolo “attivo” del destinatario del testo, che diventa interlocutore privilegiato dello scrittore e non semplice fruitore: Wordsworth stesso afferma

(EN)« Though absent long,
These forms of beauty have not been to me,
As is a landscape to a blind man’s eye:
But in lonely rooms, and mid the din
Of towns and cities I have owed to them,
In hours of weariness sensations deep
Felt in the blood, and felt along the heart. »
(IT)« Per quanto fui per tanto tempo assente [da quei luoghi],
queste belle forme non mi hanno fatto
lo stesso effetto che fa un paesaggio a una persona cieca:
invece nella solitudine delle mie stanze, e tra il chiasso
delle città ho dovuto ad esse,
in momenti in cui ero esausto, sensazioni intense
che mi entravano nel sangue toccandomi il cuore. »
((Tintern Abbey, vv. 23-39))

L’etica della natura[modifica | modifica wikitesto]

Nella poesia di Wordsworth, la natura assume tre valori: etico, morale e fonte di conoscenza. Così immortalando il Lake District nella sua poesia Wordsworth ha fatto ben più che fare conoscere al mondo questa regione benedetta dalla natura: ha messo in evidenza il valore etico e non puramente materiale o utilitario dei tesori ambientali. La natura fu d’altra parte, secondo quanto ebbe a dire lui stesso, colei che lo iniziò alla vita: le lunghe camminate sui dirupi scoscesi delle montagne del Cumberland avrebbero risvegliato i suoi sensi costringendolo in qualche modo a uscire dalla profonda introversione in cui si era chiuso sin da piccolo a causa dei gravi problemi familiari. Non deve stupire dunque che la natura sia essa stessa provvidenziale e divina: Dio si identifica con tutto il creato, è un Dio immanente e visibile. Tale visione panteistica e neoplatonica dell’universo pervade la prima poesia di Wordsworth: valga come esempio forse il più famoso dei Lucy Poems, A slumber Did My Spirit Seal (Un sonno ha intorpidito il mio spirito), dove il poeta piange la morte della donna amata:

(EN)« A Slumber did my spirit seal;
I had no human fears:
She seemed a thing that could not feel
The touch of earthly yearsNo motion has she now, no force;
She neither hears nor sees;
Rolled round in earth’s diurnal course,
With rocks, and stones, and trees. »
(IT)« Un sonno ha intorpidito il mio spirito
non avevo timori umani
lei pareva una creatura che non poteva essere toccata
dal passaggio degli anni di questo mondoOra lei più non si muove,
non sente né vede;
avvolta nella terra che ruota ogni giorno su di lei,
insieme alle sue rocce, alberi e pietre. »

Altrettanto neoplatonica è la credenza di Wordsworth che soprattutto i bambini (oltre che le persone non toccate dalla civiltà, e qui è chiara l’eco di Jean-Jacques Rousseau) siano più vicini a Dio perché in loro permane la memoria del mondo celeste in cui eravamo tutti prima di nascere. Tra i personaggi più famosi delle Lyrical Ballads sono infatti bambini, vagabondi, disabili, folli: soggetti “sconvenienti” che gettarono scandalo nei primi anni che seguirono la pubblicazione dell’opera (tanto da fornire il destro a tante parodie), ma che col tempo aprirono la strada a una maggiore solidarietà sociale, spingendo tanti vittoriani sia nelle lettere che nella politica a lottare per le grandi riforme sociali di quel secolo.

Fortuna di Wordsworth[modifica | modifica wikitesto]

La casa di Wordsworth.

L’Ottocento[modifica | modifica wikitesto]

È difficile immaginare come si sarebbe evoluto il romanticismo inglese senza le Lyrical Ballads, e quindi tutta la tradizione postromantica fino ai giorni nostri. Proprio grazie alle limitazioni sul copyright vigenti all’epoca, che permettevano la pubblicazione parziale di una raccolta da parte di altri editori senza pagare i diritti d’autore, le sue ballate finirono per essere pubblicate in migliaia di copie sui giornali, dandogli una fama ben maggiore di quella che avrebbe avuto dalla pubblicazione del suo libro. Mentre la prima edizione vendeva cinquecento copie, una buona tiratura per un libro a quell’epoca, giornali come The Critical Review e il Lady Magazine raggiungevano cifre tra le quattromila e le diecimila copie, anche se il successo del pubblico non toccava ancora Coleridge (La ballata del vecchio marinaio retrocesse agli ultimi posti dopo la prima edizione). Il successo di Wordsworth rimbalzò negli Stati Uniti, dove grandi riviste come Literary Magazine di Filadelfia ne fecero il fenomeno letterario del secolo. Durante l’età vittoriana fu Matthew Arnold a difendere la rivoluzione poetica di Wordsworth contro i detrattori che volevano tramandarlo ai posteri nella sua veste oleografica del poeta laureato e braghettone quale apparì negli ultimi anni.

Il Novecento[modifica | modifica wikitesto]

Il primo Novecento segnò una riscoperta delle Lyrical Ballads da parte della critica, con numerosi studi, come il già citato Wordsworth di Herbert Read (1930). Sempre di quegli anni è il lavoro di Basil Willey, in seguito pubblicato anche in italiano, sulla cultura inglese del Seicento e del Settecento, che mette in evidenza il rapporto del poeta col sensismo e la Rivoluzione Francese.

Studio magistrale per lo studente di anglistica è ritenuto ancora oggi The Mirror and the Lamp di M.H. Abrams, tradotto in italiano nel 1976 col titolo Lo specchio e la lampada. Una voce di dissenso autorevole ma destinata a fare molto discutere fu quella di Robert Mayo (1954), che volle vedere in molti personaggi di Wordsworth una mancanza di originalità e un eccessivo indebitamento con le vecchie ballate settecentesche. Molto interessanti sono anche gli studi più recenti di P.D. Sheats (1973) e due contributi di John J. Jordan (1970 e 1976). Oggi il Lake District è monumento nazionale e area protetta dalle leggi inglesi.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c d Thomson e Maglioni, Literary Landscapes, p. 134
  2. ^ a b c Thomson e Maglioni, Literary Landscapes, p. 149
  3. ^ a b c Thomson e Maglioni, Literary Landscapes, p. 148
  4. ^ Thomson e Maglioni, Literary Landscapes, p. 156
  5. ^ Thomson e Maglioni, Literary Landscapes, p. 157

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Opere a carattere generale[modifica | modifica wikitesto]

  • AA.VV., The Oxford Book of English Verse of the Romantic Period, 1798-1837, a cura di Sir H.S. Milford. O.U.P, 1928.
  • Abrams, M.H., The Mirror and the Lamp: Romantic theory and the Critical Tradition, O.U.P., 1953.
  • Abrams, M.H., Natural Supernaturalism, New York, Norton, 1971.
  • Baker, C., The Echoing Green, Princeton, Princeton University Press, 1984.
  • Burgess, A., English Literature, Burnt Mill, Longman, 1974.
  • Chinol, E., Masters of English Literature, Napoli, Liguori, 1983.
  • Crisafulli, L.M. et al. (a cura di), Modernità dei Romantici, Napoli, Liguori, 1988.
  • Cuddon, A.J, Literary Terms and Literary Theory, Harmonsworth, Penguin, 1998.
  • Pagnini, M., La poesia di William Wordsworth, Milano, Feltrinelli, 1959.
  • Praz, M., Storia della letteratura inglese, Firenze, Sansoni, 1985.
  • Praz, M., Cronache letterarie anglosassoni, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2 voll., 1951.
  • Thomson e Maglioni, Literary Landscapes, Rapallo, Cideb, 2002
  • Williams, R., Culture and Society, London, Chatto & Windus, 1958.

Edizioni delle Opere[modifica | modifica wikitesto]

  • William Wordsworth, Memorial of a tour on the continent, London, Longman & Hurst & Rees & Orme & Brown, 1822. URL consultato il 1 aprile 2015.
  • William Wordsworth, [Opere. Poesia], Edinburgh, Paterson, 1882. URL consultato il 1 aprile 2015.
  • Wordsworth, W., Poetical Works, a cura di E. de Selincourt e H. Darbishire, Oxford, Clarendon Press, 1940-49, 5 voll.
  • Letters of William and Dorothy Wordsworth, a cura di E. de Selincourt, Oxford, 1941, 2 voll.
  • Coleridge, S. T., A Selection of His Finest Poems, a cura di H.J. Jackson, OUP, 1994.

Traduzioni italiane[modifica | modifica wikitesto]

  • Wordsworth, W. e Coleridge, S. T., Ballate liriche, Milano, Mondadori, 1979.
  • Wordsworth, W., Il Preludio, Milano, Mondadori, 1990, 2010.
  • Wordsworth, W., Sul sublime e sulla poesia. Saggi di estetica e di poetica, Firenze, Alinea, 1993.
  • Wordsworth, W., Poems – Poesia (1798-1807), Milano, Mursia, 1997.
  • Wordsworth, W., “The Recluse – Il recluso”, Poesia, 148 (gennaio 2001), pp. 19–22.
  • Wordsworth, W., “Poesie scelte”, con testo a fronte, saggi introduttivi e note a cura di F. Giacomantonio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Wordsworth and his vision of nature

INTRODUCTION (By Annalisa Garofalo)

 

BLAKE(By M. Elena Mármol Rodríguez )

 

 

WORDSWORTH AND HIS VISION OF NATURE (BY ARANTXA)

First of all I would like to say that “Nature” has taken an important role in poetry of different periods of literature and countries. Nature is present not only in English literature but also in French and Spanish poets such as Garcilaso de la Vega and Émile Zola. But I would like to focus my attention in Wordsworth treatment of this topic and the romantic vision of nature.

Secondly, I am going to enumerate some characteristics that have something to do with the romantic’s vision of nature and Wordsworth own perception.

Romanticism is a general, collective term to describe much of the art and literature produced during the late 18th and early 19th centuries.

Romanticism can be seen as a revolution in the arts, alongside the political, social and industrial revolutions of the age: all spheres of human activity were undergoing great change. Wordsworth and Coleridge were among the first British poets to explore the new theories and ideas that were sweeping through Europe. Their poems display many characteristics of Romanticism, including:

1-An emphasis on the emotions (a fashionable word at the beginning of the period was ‘sensibility’. This meant having, or cultivating, a sensitive, emotional and intuitive way of understanding the world)

2-Exploring the relationship between nature and human life

3-A stress on the importance of personal experiences and a desire to understand what influences the human mind

4-A belief in the power of the imagination

5-An interest in mythological, fantastical, gothic and supernatural themes

6-An emphasis on the sublime (this word was used to describe a spiritual awareness, which could be stimulated by a grand and awesome landscape)

7-Social and political idealism.

(c.f.http://www.wordsworth.org.uk/Default.asp?Page=119

)

 

 We can say that “nature” is always present (sometimes meaning something different depending on the poem) in Wordsworth poetry and it is the main theme in most of his poems. Furthermore, I would like to say what this poet thought about this topic.

William Wordsworth is the Romantic poet most often described as a “nature” writer; what the word “nature” meant to Wordsworth is, however, a complex issue. On the one hand, Wordsworth was the quintessential poet as naturalist, always paying close attention to details of the physical environment around him (plants, animals, geography, weather). At the same time, Wordsworth was a self-consciously literary artist who described “the mind of man” as the “main haunt and region of [his] song.” This tension between objective describer of the natural scene and subjective shaper of sensory experience is partly the result of Wordsworth’s view of the mind as “creator and receiver both.” Such an alliance of the inner life with the outer world is at the heart of Wordsworth’s descriptions of nature.

            (c.f. http://users.dickinson.edu/~nicholsa/Romnat/wordsworth.htm )

 

 

              With regard to his poems, we can say that all of them deal, in some way, with nature. And this is what we are going to see now.

For example:

 

The presence of water in those poems where the sea appears, such as “ Lines written near Richmond upon the Thames, at evening” when Wordsworth says:

 

Oh glide, fair stream! for ever so;

Thy quiet soul on all bestowing,

Till all our minds for ever flow,

As thy deep waters now are flowing.

In this poem, appears a very huge ocean, and that ocean’s majesty and greatness still controls the individual and the species.

 

Another example would be “Lines written a few miles above Tintern Abbey”:

How oft, in spirit, have I turned to thee o Sylvan Wye!

Thou wanderer through the woods,

How often has my spirit turned to thee!

 

Here, that deep blue sea or that river, show us that water which is apparently calm, can change into huge strength waves and that would produce some inspiration in the poet that would change his feelings.

We can also find “nature” in his poem named “The Excursion” where he defends the nature’s contemplation to achieve the moral knowledge.

(c.f. Corugedo y chamosa, 11, 12 and 13)

I have written all these examples because I think that it is interesting to see how Wordsworth saw nature in some of his poems as we can say that nature is his main topic and this theme takes a very important role in all his works. However, I would like to focus my attention on the poem called “Lines written in early spring”, also written by Wordsworth, where we can find a lot of examples of nature. It mainly talks about this topic.

Lines Written In Early Spring

I heard a thousand blended notes,

While in a grove I sate reclined,

In that sweet mood when pleasant thoughts

Bring sad thoughts to the mind.

 

To her fair works did Nature link

The human soul that through me ran;

And much it grieved my heart to think

What man has made of man.

 

Through primrose tufts, in that green bower,

The periwinkle trailed its wreaths;

And ‘tis my faith that every flower

Enjoys the air it breathes.

 

The birds around me hopped and played,

Their thoughts I cannot measure: —

But the least motion which they made,

It seemed a thrill of pleasure.

 

The budding twigs spread out their fan,

To catch the breezy air;

And I must think, do all I can,

That there was pleasure there.

 

If this belief from heaven be sent,

If such be Nature’s holy plan,

Have I not reason to lament

What man has made of man?

(c.f.http://quotations.about.com/od/poemlyrics/a/wordsworth17.htm )

“Lines Written In Early Spring” is a classic Wordsworth poem. Basically, it expresses his love of simplicity, tenderness and love of nature.

 

 

In this poem, Wordsworth contrasts the perceived happiness and pleasure of the natural world with the grim state of mankind. He introduces this theme with the last two lines of the first stanza: “In that sweet mood when pleasant thoughts bring sad thoughts to the mind.”

 

Wordsworth then suggests that the happiness of nature should be paralelled by a hapiness of mankind: “To her fair works did nature link the human soul that through me ran; And much it greaves my heart to think what man has made of man.”

(c.f.http://www.englishforums.com/English/WrittenEarlySpringWilliam/xmn/Post.htm )

This poem is mainly talking about nature in a very positive way. It really recreates a spring atmosphere because he says “and ‘tis my faith that every flower”(line 11) or “the birds around me hopp’d and play’d”(line 13). What he is describing in this examples is very much related with that season( the spring).

It makes you feel very calm and relaxed because he describes that season with harmonious adjectives and tenderness. We can also see that calm in lines 17, 18, 19 and 20) where he says “the budding twigs spread out their fan, to catch the breezy air, and I must think, do all I can, that there was pleasure there”. Here he also recreates that feeling of breathing pure air, because it has always been said that when you are close to nature, the air is not polluted so it is more pure and there are not difficulties for breathing. So, here he is saying that he was lying in a tree seeing the lovely nature and breathing that pure air that nature brings him.

I think that in this poem, nature has a very important role and, although for Wordsworth, nature had different meanings depending on the poem he is talking about, in this one we can easily see that nature is here described as that sensation of calm, of being in harmony and seeing birds playing or leaves flourishing and breathing. So, we must say that this poem is a very good example of Wordsworth view of nature.

 

BIBLIOGRAPHY

 

 

http://www.wordsworth.org.uk/Default.asp?Page=119

Home: <www.wordsworth.org.uk>

 http://users.dickinson.edu/~nicholsa/Romnat/wordsworth.htm

Home:< www.users.dikinson.edu>

.http://quotations.about.com/od/poemlyrics/a/wordsworth17.htm

Home: <www.quotations.about.com>

.http://www.englishforums.com/English/WrittenEarlySpringWilliam/xmn/Post.htm

Home: <www.englishforums.com>

(c.f. Corugedo y chamosa, 11, 12 and 13)

Corugedo, Santiago and Chamosa, Jose Luís. Baladas líricas, Madrid, Catedra, Letras Universales, 1990.

 

 

COLERIDGE (By Ani Tadevosyan)

 

SHELLEY (By Inma C. Sanchis Garcia- Astilleros)

 

BYRON (By Barbara Cortes Martinez)

 

KEATS (By Mari Carmen Mora Vives)

 

CONCLUSION (By Sara Lozano Aragó)

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

La Fenomenologia dello spirito era stata concepita da Hegel come un’introduzione al suo sistema filosofico, poi essa crebbe nel corso della stesura e assunse una dimensione del tutto autonoma, ma va tenuto presente che Hegel l’aveva concepita come introduzione al sistema. Prima di parlarne è necessario riprendere brevemente le tappe del discorso che portano a quel culmine dell’idealismo che è il pensiero di Hegel. Proprio nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, Hegel afferma in maniera lapidaria, categorica: «Il vero è l’intero». Se applichiamo questa affermazione alla verità filosofica, Hegel vuol dire anche che il suo sistema filosofico costituisce un passo successivo, un completamento rispetto ai precedenti: la verità della filosofia non emerge semplicemente dal sistema hegeliano, ma da tutto l’insieme della storia della filosofia; secondo Hegel, il suo stesso pensiero è vero soltanto nell’interezza, nella completezza dello sviluppo del pensiero occidentale e in particolare dell’idealismo. Per seguire il suggerimento implicito di Hegel dobbiamo riprendere il discorso sull’interezza dell’idealismo tedesco. L’idealismo aveva superato il criticismo kantiano, che era debole dal punto di vista teoretico per il fatto di essere un sistema dualista, in quanto scindeva il fenomeno dal noumeno, e soprattutto, per la mentalità idealistico-romantica, Kant aveva il difetto di aspirare semplicemente alla conoscenza del finito, del fenomeno, senza lo slancio, tipico della civiltà romantica, a cogliere l’infinito, l’assoluto. Fichte, Schelling e Hegel, hanno invece la pretesa prometeica di cogliere la struttura dell’infinito, e di non limitarsi kantianamente al finito. Il primo tentativo è stato quello di Fichte. Questi ha compiuto un passo in avanti enorme rispetto a Kant in quanto ha abolito la cosa in sé, e, rompendo le barriere tra fenomeno e cosa in sé, ha avviato l’unificazione della realtà intorno al concetto di Io puro, ovvero di assoluto, ma Hegel lo accusa di “cattiva infinità”: l’infinito di Fichte continua a rimanere staccato dal finito. La storia umana avanza continuamente verso l’assoluto, verso l’Io puro, verso la libertà, ma non li raggiunge mai, c’è sempre qualche ostacolo del non-io che si frappone ancora. Di conseguenza l’infinito, l’assoluto, stanno sempre a una certa distanza dal finito, dall’uomo, dall’umanità e dalla storia: fra la storia e l’assoluto, fra l’uomo e l’assoluto, fra il finito e l’infinito, c’è sempre per Fichte ancora una certa distanza. Per questo Hegel lo rimprovera di restare nonostante tutto ancora all’interno di una mentalità illuministica. L’Illuminismo aveva condannato la storia dal punto di vista della ragione. Hegel dice in sostanza: Fichte ha compiuto un grande passo in avanti rispetto a Kant, ma in effetti ha posto la ragione, l’infinito, l’assoluto, da una parte e il finito, la storia, l’uomo, dall’altra parte.

Un altro passo in avanti l’aveva compiuto Schelling, che sosteneva la compresenza di io e non-io all’interno dell’assoluto, quindi aboliva la distanza che permaneva in Fichte. L’assoluto di Schelling è un assoluto che vede tutti e due gli elementi, il finito e l’infinito, lo spirito e la materia, l’io e il non-io, sempre compresenti. Per questo motivo il giovane Hegel appoggia Schelling contro Fichte. Uno dei primi scritti di stretto carattere filosofico di Hegel, del 1801, è il saggio sulla Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling: in questa presa di posizione egli propende per Schelling in quanto ha unificato i due elementi ancora in parte scissi in Fichte. Ma proprio la Fenomenologia dello spirito segna il momento in cui Hegel prende le distanze anche da Schelling, rimproverandolo di aver avuto una visione dell’assoluto quale «una notte in cui tutte le vacche sono nere», come dice con ironia. Che cosa gli vuol rimproverare? Se l’assoluto è unità indifferenziata di io e non-io, di finito e infinito, ne consegue che non c’è nessun principio che permetta di capire come dall’assoluto si passi alla dinamica del molteplice, del plurale, dei regni della natura: la concezione dell’assoluto di Schelling è una concezione statica, in cui c’è una mescolanza che, proprio per essere una mescolanza perfetta, non lascia poi capire per quale motivo da essa si debba passare a tutto il travaglio della natura in cui si differenziano tanti enti, tanti individui l’uno diverso dall’altro. Nella natura prevale dapprima il non-io sull’io e poi, progressivamente, nelle forme più mature, si capovolge il rapporto, ma questo dinamismo non è spiegato da un assoluto statico come quello che Schelling pone all’inizio del suo sistema.

A questa visione schellinghiana Hegel muove un’obiezione fondamentale: essa è una visione puntuale del- l’assoluto, l’assoluto è una sorta di punto di indistinzione in cui si intrecciano strettamente io e non-io; l’errore di Schelling è stato proprio quello di aver visto l’assoluto come puntuale e come statico, come sostanza alla maniera di Spinoza. Hegel afferma invece nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, che l’assoluto non è sostanza, bensí è soggetto. Quest’affermazione ha un significato fondamentale: l’assoluto è dinamico, è in movimento come un soggetto, non è fermo come una sostanza inerte. Schelling invece lo ha concepito come sostanza, quindi come statico, inerte e puntuale. Qual è stata la conseguenza di questo errore di Schelling? Egli ha dovuto sostenere che la conoscenza dell’assoluto è possibile in base a un’intuizione molto simile all’intuizione estetica. Abbiamo detto che per Schelling l’arte è l’organo della filosofia: c’è qualche cosa di superiore al pensiero, c’è qualche cosa che sta più in alto della filosofia, ed è la sfera estetica. Per quale motivo? Perché la realtà suprema è l’assoluto, e l’assoluto si può cogliere con un atto in fin dei conti irrazionale, di intuizione, molto simile a quello con cui si intuisce la bellezza in un’opera d’arte. Con questa caratterizzazione dell’assoluto, Schelling è caduto nell’irrazionalismo. Da qui bisogna partire per capire la visione molto diversa di Hegel.

Fichte   |    Schelling   |   Hegel

Idealismo Tedesco

Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling

 Nel raccogliere le idee per questo incontro e i testi che vorrei leggere insieme con voi, mi sono reso conto che mi ero dato un compito molto ambizioso, ma lo ridimensiono subito: parlare del Romanticismo in generale sarebbe troppo complesso, perché il Romanticismo non è semplicemente una corrente letteraria o filosofica, bensí è un fenomeno di civiltà complessiva, anzi questo è proprio uno degli elementi che ispireranno le poche cose che vi dirò. Il Romanticismo è un momento di civiltà paragonabile al Rinascimento italiano, che trova espressione nei campi più svariati dell’arte, dalla pittura alla musica, oltre che nella letteratura, nella filosofia (ma sono molto importanti anche la scienza romantica e la medicina romantica, con Hahnemann, il fondatore dell’omeopatia moderna). Si tratta di un embrione di civiltà. Dico embrione di civiltà perché questi fermenti che possiamo racchiudere sotto il nome di Romanticismo si sono manifestati dagli ultimi anni del ’700, con una preparazione un po’ precedente, fino al primo trentennio, grosso modo, dell’800, e avrebbero potuto dare luogo a un assetto diverso dei rapporti umani, poi c’è stata la chiusura di una serie di prospettive storiche, per cui del Romanticismo è sopravvissuto soltanto l’elemento letterario; voglio invece sottolineare un’interpretazione del Romanticismo come civiltà complessiva, all’interno della quale vanno iscritti anche i tre grandi idealisti: Fichte, Schelling, Hegel. Per fare questo sono costretto a compiere un passo indietro, cioè a mettere in rilievo quali sono i caratteri e i limiti dell’Illuminismo, che il Romanticismo supera. A questo proposito vorrei sottolineare una limitazione presente in molti libri di testo e anche nella maniera tradizionale, corrente di presentare il Romanticismo, giustificata dal fatto che il Romanticismo si studia nelle scuole solo sotto l’aspetto letterario: si vede il Romanticismo come espressione del mondo del sentimento, e lo si contrappone all’Illuminismo come espressione del mondo della ragione. Di solito questa è la dicotomia che viene presentata. All’astrattezza della ragione illuministica, che avrebbe  manifestato i suoi limiti con il regresso succeduto alla Rivoluzione francese, fa seguito una specie di rivincita del sentimento, del cuore, e comunque di tutto ciò che in qualche modo è antitetico alla ragione, l’irrazionale. Se si dà questa interpretazione del Romanticismo, di questo pe-riodo della cultura europea, tra l’altro non si capisce la collocazione dei grandi filosofi come Fichte, Schelling ed Hegel, che invece sono pienamente parte del Romanticismo, ma a patto che non si consideri il Romanticismo come caratterizzato dall’antitesi del sentimento contro la ragione illuministica.

Allora in che cosa consiste l’opposizione tra Illuminismo e Romanticismo? L’opposizione è questa: l’Illuminismo era l’esaltazione della ragione, ma di una ragione che si dava limiti precisi, cioè la conoscenza solo del finito. L’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert è il progetto più ambizioso dell’Illuminismo, e per questo la si può prendere come esempio. Nell’Enciclopedia si affronta il pro- blema di riunire tutto lo scibile, ma lo si mette in ordine alfabetico, cioè in sostanza in un ordine qualsiasi, il che significa che non si vede la realtà come un tutto, come una totalità organica, bensí come una serie di elementi finiti. La ragione illuministica si limita alla conoscenza di segmenti della realtà, poi, al massimo del suo sforzo, nel progetto dell’Enciclopedia, riunisce tutti questi segmenti finiti e li mette in un ordine che è un ordine arbitrario, l’ordine alfabetico. La ragione illuministica è una ragione che ripudia nettamente la possibilità di conoscere l’infinito, la totalità, l’assoluto, e si limita deliberatamente alla conoscenza del finito.

Questo atteggiamento è proprio anche del pensiero di Kant, che in questo senso dobbiamo vedere come il culmine dell’Illuminismo. Per Kant la conoscenza è sempre una conoscenza frammentaria, una conoscenza di piccole parti della realtà. Quando, al di sopra dell’intelletto con le sue categorie, abbiamo trovato in Kant la ragione, abbiamo visto che essa scantona rispetto ai compiti conoscitivi, si forma le tre idee sintetiche di Dio, di anima e di mondo, ma a quelle tre idee non corrisponde nessuna conoscenza. Quindi Kant, come vertice dell’Illuminismo, ribadisce appunto questo concetto: si possono conoscere soltanto le entità finite, mentre l’infinito, l’assoluto non sono conoscibili. La Critica della ragion pura compie un bilancio della conoscenza da cui è esclusa la metafisica e stabilisce che si può conoscere soltanto il finito. L’Illuminismo è fiducia nella ragione, ma in una ragione che, con il linguaggio della filosofia idealistica, possiamo denominare più propriamente intelletto astratto. Per l’Illuminismo si possono conoscere soltanto ele- menti particolari della realtà tratti fuori dall’insieme. Il problema dell’insieme, della totalità, dell’infinito, dell’assoluto, è fuori di discussione. In questo senso, anche lo stesso Fichte si colloca ancora all’interno della mentalità illuministica perché in effetti l’assoluto di Fichte è all’inizio del processo di sviluppo della realtà, poi è il termine del divenire, ma non viene raggiunto mai. Che cosa significa quell’assoluto di Fichte? Assoluto significa ab-solutus, cioè sciolto da vincoli, ciò che non ha nient’altro fuori di sé, quindi coincide con l’infinito, nel linguaggio di Fichte coincide con la libertà. Ma la libertà, l’assoluto di Fichte sta alla fine della storia, perché vi ricorderete che ogni volta che l’io empirico ha superato un ostacolo del non-io, emerge un altro ostacolo più avanzato, e quando è stato superato anche questo si va avanti ancora, e così all’infinito, secondo quella che poi Hegel criticherà come cattiva infinità. In che senso in questo Fichte è illuminista? È illuminista perché l’assoluto sta da una parte e la storia dall’altra, cioè c’è una scissione, e l’assoluto sta sempre dopo la storia, quindi    la storia precede l’assoluto. Non è raggiunto ancora il punto di vista della totalità in cui la storia e il piano ideale, il finito e l’infinito si integrano: il finito e l’infinito sono separati, l’io empirico in effetti non diventa mai Io assoluto, l’Io assoluto è una specie d’idea regolativa kantiana, ma è un’idea, qualche cosa che sta alla fine della storia, quindi in sostanza non c’è mai. Allora l’Illuminismo, Kant e Fichte, non riescono a superare una concezione per cui la ragione, l’ideale, l’infinito restano estranei al reale, al finito, alla storia. Sia Kant, sia Fichte lasciano ancora un mondo scisso tra il finito e l’infinito, cioè Kant e Fichte continuano ad essere dualisti e quindi pluralisti come gli illuministi. Vale a dire che da una parte c’è l’io, dall’altra parte c’è l’assoluto, da una parte c’è il fenomeno, in Kant, e dall’altra parte c’è il noumeno, da una parte c’è la materia e dall’altra parte c’è lo spirito, e così via. Da una parte c’è la storia, dall’altra c’è un piano spirituale e ideale che però nella storia non si riesce a realizzare pienamente.

L’Illuminismo è espressione di una razionalità che concentra la sua attenzione e la sua possibilità conoscitiva sul finito. Direi che il Romanticismo (siamo in una conversazione con finalità didattica e quindi possiamo schematizza- re questo fenomeno così complesso) invece è il tentativo, è l’affermazione orgogliosa da parte dell’uomo di poter cogliere l’assoluto, l’infinito: l’assoluto, l’infinito non sono visti come qualche cosa che va espunto dalle possibilità di conoscenza. Questo caratterizza il Romanticismo. In questo senso il Romanticismo è un periodo di grande esaltazione delle capacità umane. Vedremo tra poco il primo testo che voglio sottoporre alla vostra attenzione, un testo che è testimonianza del titanismo del Romanticismo, una poesia del giovane Goethe che sfida gli dei, perché appunto vede l’uomo come la vera divinità.

Il Romanticismo è dunque caratterizzato dalla forte fiducia dell’uomo di poter cogliere l’infinito. Questo tentativo di cogliere l’infinito può avvenire in diverse maniere, e a questo proposito rispunta il sentimento, che viene di solito visto come il cardine del Romanticismo: le vie che la poesia soprattutto, ma anche una certa filosofia romantica, vedranno come vie d’accesso all’infinito sono l’intuizione, lo slancio sentimentale, il volo di fantasia, il salto fideistico. Invece i grandi filosofi idealisti, che a questo punto rientrano pienamente nella civiltà romantica, tentano un approccio razionale all’assoluto, all’infinito. L’al- bero del Romanticismo, come tentativo di approccio all’assoluto, si divide in due grandi rami, un ramo di carattere irrazionalistico, che è quello che poi persiste per tutto l’800 e si esprime soprattutto nella letteratura, e il ramo filosofico, caratterizzato dal tentativo di approccio razionale all’assoluto, che è quello dei grandi idealisti. L’approccio degli idealisti all’assoluto avviene non in base alla razionalità dell’intelletto, cioè la razionalità limitata, la razionalità che può cogliere soltanto frammenti di real-tà come quella kantiana, ma in base ad una ragione supe- riore all’intelletto, che è una ragione dialettica o speculativa. Questo lo vedremo soprattutto in Hegel. Ora, data questa indicazione, questo schema, naturalmente parlare del primo aspetto del Romanticismo, cioè del Romanticismo di carattere letterario-artistico sarebbe molto complesso ed esce fuori dai modesti limiti che noi ci siamo prefissi, però ho giudicato opportuno sottoporvene tre-quattro elementi perché sono elementi fortemente connaturati alla cultura tedesca, sono quelli che si riverberano in tutto il pensiero tedesco, e, di solito, per la densità dei programmi di Letteratura italiana, riesce impossibile leggere durante le ore di Italiano. Queste letture ci permetteranno di individuare alcune delle categorie fondamentali del Romanticismo.

Il primo elemento che voglio sottolineare è il titanismo: l’uomo romantico si sente un titano, si sente in grado di sfidare gli dei, perché si sente in grado di poter raggiungere l’assoluto. Penso che la migliore espressione del titanismo del Romanticismo, di questo carattere forte del Romanticismo, sia dato da una poesia giovanile di Goe-the. Goethe poi superò questa fase più ingenuamente romantica o addirittura preromantica dello Sturm und Drang, che viene ricordato in tutti i manuali come il momento di ribellione alla freddezza illuministica e della fondazione di nuove istanze del sentimento. È significativo che questa poesia di Goethe sia dedicata a Prometeo, cioè a colui che ha carpito agli dei il segreto della civiltà, la scintilla, il fuoco, e si erge contro gli dei. Questa poesia  dà l’idea della grande fiducia nelle proprie forze dell’uomo romantico: «Copri il tuo cielo, o Giove, con vapori di nuvole e, simile al fanciullo che decapita cardi, esercitati con querce e con vette di monti. Ma non devi toccare a me la mia terra e la mia capanna, che tu non costruisti ed il mio focolare, la fiamma del quale tu mi invidi». L’uomo è creatore del suo mondo, del mondo della storia. Il mondo della storia, direi vichianamente, è creazione dell’uomo, e lo stesso Giove, la stessa divinità non può toccarla. «Io non conosco, sotto il sole, niente di più povero di voi, o iddii! Voi nutrite miseramente, con tributi di vittime e fiato di preghiere, la vostra maestà e vivreste nell’indigenza, se non ci fossero bimbi e mendicanti, speranzosi pazzi». Addirittura è la divinità che dipende dall’uomo, perché le offerte e i sacrifici vengono da coloro che vivono di speranza. «Quando ero bimbo non sapevo dove rivolgermi; volgevo il mio errante occhio al sole, come se lassù fosse un orecchio che udisse il mio lamento, un cuore, come il mio, che avesse pietà dell’oppresso. Chi mi aiutò contro la prepotenza dei titani? Chi mi salvò dalla morte e dalla schiavitù? Non hai compiuto tu stesso tutto, tu, cuore, che sacramente ardi? E ardevi, giovane, buono ed illuso, fiamme di ringraziamento per la tua salvezza al dormiente, lassù? Io te onorare? Perché? Hai tu mai mitigato i dolori dell’oppresso? Hai tu mai chetato le lacrime dell’afflitto? Non mi han plasmato uomo il tempo onnipossente e l’eterno destino, miei e tuoi padroni? Supponevi tu forse ch’io dovessi odiare la vita, fuggir nei deserti perché non tutti i sogni del tempo dei fiori maturarono?». Goethe è consapevole che non tutti i sogni maturano, ma se maturano è per merito umano: è forse questa la più decisa espressione del titanismo.

La seconda categoria che vorrei proporvi è quella    dell’irrequietezza romantica. L’uomo romantico è in cammino verso l’assoluto, ma il cammino verso l’assoluto, cioè verso l’identificazione di finito ed infinito, implica che, ogni volta che si è raggiunto un orizzonte, ogni volta che si è raggiunta un’apparente sintesi di finito ed infinito, ci si accorge che bisogna ricominciare daccapo, perché si è colto soltanto un aspetto della sintesi, ma il cammino ricomincia. Per questo il termine “romantico” indica il passare di tappa in tappa, di avventura in avventura, alla ricerca di qualche cosa che poi in effetti non si ritrova mai pienamente. Il che dà luogo anche a un elemento di melanconia, contrapposto a quello del titanismo: c’è la convinzione che il percorso si rinnova sempre e non si giunge mai alla meta. Mi pare che la migliore espressione dell’irrequietezza romantica sia quella di Schiller nella poesia Il pellegrino: «Ero ancora nella giovinezza della mia vita e partii, le liete danze della giovinezza lasciai nella casa paterna». Si presenta qui un altro carattere molto suggestivo del Romanticismo: l’abbandono delle sicurezze. Schelling, di cui parleremo tra poco, afferma con risolutezza che l’essere umano, per essere degno di questo nome, deve rompere con la routine, si direbbe oggi, deve introdurre nuove finalità nel mondo. L’uomo in quanto tale è colui che, per i romantici, e anche per Schelling, non si ferma al dato, ma cerca di andare oltre il dato. Nel Pellegrino Schiller esprime benissimo questo spirito di tra- scendenza, l’esigenza di andare oltre la situazione data. Il poeta vive tranquillo nella casa paterna, ma, dice, lascia le danze della giovinezza. «Tutta la mia eredità, ogni mio avere gettai via gioiosamente, pieno di fiducia e, con spensieratezza di fanciullo, me ne andai col leggero bastone del pellegrino. Perché mi spingeva una forte speranza ed una misteriosa parola di fede. Và, diceva, la via è aperta, và sempre verso oriente, finché tu arriverai ad una porta d’oro, là entrerai perché ciò che è della terra sarà colà eternamente del cielo». Ciò che è della terra, il finito, verrà iscritto pienamente nell’infinito, tutto quello che è contingente verrà visto alla luce del suo significato pieno all’interno dell’assoluto. «Calò la sera e spuntò il mattino, non mi arrestai mai, ma quello che io cerco, quello che voglio rimane sempre celato. Montagne stavano sulla mia strada, fiumi furono di impedimento al mio cammino, buttai passerelle al di sopra degli abissi e ponti al di sopra del fiume impetuoso. E pervenni alle rive di un fiume che scorreva verso il mattino; affidandomi lietamente al suo corso, mi gettai nel suo seno. Il gioco delle sue onde mi trascinò sino ad un grande mare; esso giace davanti a me in vasta solitudine, non sono più vicino alla meta». Dopo tutti questi travagli il punto di arrivo è identico al punto di partenza, c’è un oceano sconfinato davanti. «Ah!, non una passerella mi condurrà là, ah! il cielo al di sopra di me non toccherà mai la terra ed il là non sarà mai qua». Ripeto, l’infinito non si riesce mai a scorgere pienamente nel finito. Questo rapporto c’è, anche se è difficile individuarlo: il poeta è colui che ha un animo particolarmente sensibile, che gli permette di scorgere le scintille, le tracce di infinito all’interno delle cose finite. A questo proposito basti pensare all’idealismo magico di Novalis, e a tanta poesia tedesca e non solo tedesca. Per il poeta romantico, all’interno di ogni cosa singola, all’interno di ogni episodio, all’interno di ogni entità naturale c’è il riverbero, la traccia di qualche cosa che va al di là di esso, e questo qualche cosa, essendo l’infinito, mette in comunicazione con tutto il resto. Due entità completamente distinte, A e B, sono  comunque partecipi l’una dell’altra, perché sono tutte e due parti dell’infinito. Per questo si può procedere con una serie di analogie, che di fatto possono non avere termine, tra un’entità e l’altra, e quindi si capisce come certi esiti successivi del simbolismo sono già presenti nel Romanticismo. La fantasia è pienamente abilitata, perché la fantasia è quella funzione che gli uomini comuni tendono a soffocare in loro stessi, ma che il poeta ha particolarmente acuta, una facoltà che permette di scorgere le tracce di infinito, quindi di passare anche con voli pindarici da un’entità finita ad un’altra, senza arbitrio.

Ci avviciniamo ancor più ai nostri temi filosofici con l’altra grande categoria del Romanticismo, quella della nostalgia: la conciliazione tra spirito e materia, tra finito ed infinito, tra soggetto ed oggetto, è avvenuta in un epoca del passato, esattamente è avvenuta nella Grecia classica: per questo i romantici si sentono esuli. Si tratta di un tema presente anche nella letteratura italiana, basti pensare a Foscolo. Gli uomini romantici si sentono esuli da una terra dell’armonia, da una terra in cui il cielo e la terra erano congiunti, il divino e l’umano erano uniti, gli dei erano simili a uomini e c’era un perfetto accordo tra lo spirituale ed il materiale. Quest’epoca è l’epoca della Grecia classica: c’è nei romantici una nostalgia della Grecia, che non ha niente a che vedere con la tendenza imitativa dell’arte classica propria del classicismo: si tratta di qualche cosa di diverso, di un sentirsi esuli, quello che può essere proprio esemplificato in certe poesie di Foscolo. Questa nostalgia, che ha fatto parlare della Germania romantica come della seconda Grecia, è particolarmente presente in Hölderlin, una figura molto importante anche a proposito di Schelling. Questo poeta, che è nato nel 1770, quindi era coetaneo di Hegel, si è formato nel collegio di Tubinga insieme con Schelling ed Hegel. Questi tre giovani insieme piantarono l’albero della libertà quando ebbero le prime notizie del divampare della Rivoluzione francese, si giurarono insieme di non parlare mai di banalità in vita loro, ed elaborarono insieme un documento che è diventato uno dei grandi problemi della filologia della filosofia tedesca: il primo abbozzo di sistema dell’idealismo tedesco, che non è firmato, per cui alcuni interpreti sostengono che sia un testo di Schelling, altri lo attribuiscono a Hegel perché è scritto con la grafia di Hegel, altri lo vedono come ispirato da Hölderlin. Ci fu quindi un momento della giovinezza di questi tre giganti in cui le idee dell’uno si confondevano con le idee dell’altro. La nostalgia della Grecia è comune a tutti e tre. Ora vediamo in che cosa consiste questa Grecia ideale da cui il romantico è esule, leggiamo La Grecia di Hölderlin: «Laggiù all’ombra dei platani dove tra i fiori correva il Cefiso e i giovani sognarono la gloria, dove Socrate conquistava i cuori, dove Aspasia incedeva in mezzo ai mirti, dove un grido alto di fraterna gioia dall’agorà sonora si levava, e creò il mio Platone Paradisi [Platone creò la grande teoria delle idee, i grandi dialoghi], dove inni solenni ravvivavano la primavera e fiumi di entusiasmo calavano dal monte sacro a Pallade – omaggio alla divina protettrice –, dove in mille dolci ore di poesia la vecchiezza vaniva come un sogno divino, là t’avessi io incontrato come da tempo ti incontrò il mio cuore». Voglio rilevare solo due elementi. Ci sono da una parte Socrate, Platone, la caratterizzazione di momenti della storia in riferimento all’agorà, dall’altra parte c’è la natura della penisola ellenica. Anche in questi primi versi va rilevato lo stretto collegamento tra una natura mite e la fioritura di una grande civiltà: natura e cultura non sono spaccate, scisse, opposte l’una all’altra, ma sono una cosa sola nel pensiero romantico, cioè nella Grecia quale viene interpretata e vagheggiata dai romantici. Così, d’altra parte, l’individuo romantico non è un individuo scisso dalla totalità. Questa è una poesia d’amore rivolta a Diotima, il personaggio reale e ideale, come sempre avviene nei poeti, interlocutrice di Hölderlin, però la vicenda individuale si iscrive in una vicenda cosmica, storica: il rapporto individuale sarebbe stato diverso se i due fossero vissuti in Grecia. Gli individui non esistono come esseri separati dalla comunità e dalla storia: «Quale abbraccio diverso! Tu mi avresti cantato degli eroi di Maratona; il più bello di tutti gli entusiasmi avrebbe riso dai tuoi occhi ebbri; giovane avresti il cuore di vittoria, lo spirito lambito dall’alloro non premerebbe l’afa d’una vita che avaro il soffio della gioia allevia. Tramontata è la stella dell’amore? e l’alba rosea della giovinezza? Tu non sentisti dileguare gli anni, nella danza dorata delle ore. Eterni come la fiamma di Vesta coraggio e amore ardevano nei cuori, eterna come i frutti delle Esperidi gioiva l’orgogliosa giovinezza. Ah, in quei giorni migliori non invano avrebbe il cuore tuo grande e fraterno battuto per un popolo per cui fu così bello piangere di gioia. Attendi. Verrà l’ora, verrà certo, che separa il divino dal suo carcere. Muori. Nel cerchio della terra invano cerchi, nobile cuore, il tuo elemento». Finita la Grecia, il divino è andato via, Hölderlin dice che gli dei se ne sono andati dalla terra, che c’è una situazione di deserto, di desolazione. «E l’eroina, l’Attica, è caduta. Sulle tombe dei figli degli Dei, nella rovina delle sale infrante, solitaria la gru sta nel suo lutto». Viviamo fra le rovine di una antica civiltà, la natura si prende la rivincita su queste rovine, ma è muta anch’essa: finito il raccordo tra natura e cultura, c’è una cultura deserta, ma una natura che è smorta anch’essa. «La primavera torna col sorriso ma non ritrova più i suoi fratelli lungo la sacra valle dell’Ilisso, dormenti sotto i rovi e le macerie. Il desiderio vola a quella terra lontana, verso Anacreonte e Alceo, e là vorrei dormire, in un’angusta dimora, presso i santi, in Maratona». Gli eroi di Maratona che emblematizzano per Hölderlin lo spirito greco contro il mondo orientale: la Grecia, la matrice della civiltà è stata difesa appunto a Maratona, per questo gli eroi di Maratona sono i santi di Hölderlin. «Ma siano queste lacrime le ultime che ora ho versato per l’amata Grecia: stridano le cesoie delle Parche, perché il mio cuore già appartiene ai morti». La speranza di ripristinare la Grecia è una speranza illusoria.

L’ultima lettura che propongo è tratta da Iperione. L’eremita in Grecia, il grande romanzo di Hölderlin. Il titolo è significativo: si tratta un ritorno alla Grecia nella speranza che la Grecia si potesse emancipare dal dominio ottomano; questa speranza cade, il destino della Grecia è segnato, Hölderlin dice: «Lacune ed errori si incontrano ovunque e così anche qui [cioè in Grecia]. Ma una cosa è certa, che negli oggetti della loro arte si incontra, per lo più, l’uomo maturo [l’umanità è sbocciata in Grecia]. Qui non esistono la meschineria ed il mostruoso degli Egizi e dei Goti, qui ritrovo il senso umano e la forza umana. Essi si perdono meno degli altri negli estremi del soprasensibile e del sensibile. Più che altri dei, i loro dei restano nel bel mezzo dell’umano». Rispetto ad altre civiltà (si riferisce agli Egizi e ai Goti, gli Egizi significano la civiltà orientale ed i Goti la civiltà germanica, la civiltà del nord Europa), che sono tendenti all’abnorme, che tendono a vedere il divino come qualche cosa di mostruoso (che schiaccia l’umano, che non è a misura d’uomo) che quindi segnano il distacco tra naturale e sovranaturale, tra  finito ed infinito, in Grecia gli dei sono a misura d’uomo. In Grecia il materiale e lo spirituale sono conciliati, uma-no e divino sono una sola cosa, appunto gli dei restano nel bel mezzo dell’umano. Prosegue: «L’Egitto sopporta senza dolore il despotismo dell’arbitrio, il figlio del Nord, senza reazione, il despotismo della legge, l’ingiustizia sotto forma di diritto; perché l’Egizio ha, già dal grembo materno, l’istinto dell’adorazione e dell’idolatria». L’egizio e           il figlio del Nord non sono uomini liberi, si sentono   schiacciati da forze soverchianti, estranee, il greco invece sente il divino come qualche cosa che gli è vicino. Tutti gli altri popoli non hanno dato luogo a civiltà pari a quella greca perché si sono visti soverchiati dal sovrannatura-     le, il popolo greco invece ha conciliato naturale e sovrannaturale.

Prima di passare a Schelling, vorrei considerare solo un ultimo punto, in cui viene teorizzato un elemento molto importante del Romanticismo: la poesia e l’arte come organo della filosofia, una tesi romantica che Schelling ha enunciato nella maniera più piena, ma è anche presente in Hölderlin e penso che possa servire a chiarificare quanto sostiene Schelling. Dice Hölderlin, ancora nell’Iperione: «L’uomo che, durante la sua vita, non ha sentito in sé, almeno una sola volta, la piena, pura bellezza, quando, dentro di lui, le energie del suo essere giocavano, come i colori dell’arcobaleno, in reciproco intreccio, che mai ebbe a provare come, nell’ora dell’entusiasmo, tutto ritrovi un’intima armonia, quell’uomo non diventerà mai un filosofo dubitante; il suo spirito non è fatto per abbattere e tanto meno per costruire. Credetemi, chi dubita trova contraddizioni e manchevolezze in tutto quello che viene pensato, solo perché egli conosce l’armonia della perfetta bellezza, che non è mai pensata. Il pane secco che la ragione umana gli offre con buona intenzione, egli lo sdegna soltanto perché banchetta segretamente alla tavola degli dei». Qual è il collegamento tra poesia e filosofia? La filosofia è dubbio, la filosofia è esercizio critico della ragione. La filosofia è demolizione delle certezze date per scontate dal senso comune. Ma questo è possibile perché il filosofo ha contemplato la pura bellezza, cioè ha contemplato l’armonia, ha contemplato la pienezza dell’essere, al cui confronto l’esistente gli risulta inadeguato. Il filosofo si pone in un atteggiamento di critica, di antagonismo rispetto all’esistente. Si mette in viaggio romanticamente verso una conciliazione con l’assoluto: ha colto l’armonia, ha colto la compenetrazione di ideale e di reale in una specie di fase precedente, in una contemplazione di carattere estetico. Ha in sé il ricordo di questa armonia, e, alla luce di questo modello, di questa piena compenetrazione della materia da parte dell’ideale, da parte dello spirituale, tutto quello che si ritrova nel mondo esistente non lo soddisfa, e mette in moto la sua facoltà di critica inesausta. La poesia e l’arte, la contemplazione estetica sono matrici del dubbio filosofico, dell’atteggiamento filosofico. Ancora le ultime parole, quelle forse decisive: «Sognatore! – esclamò Diotima – per questo dubitavi anche tu. Ma gli Ateniesi!». «Sono totalmente con loro – dissi –. La grande parola e{n diajevron eJautv (l’uno distinto in se stesso) di Eraclito, la poteva trovare solamente un Greco, perché è l’essenza della poesia, e, prima che venisse trovata, non esisteva filosofia alcuna». Per Hölderlin la filosofia consiste nel cimentarsi con il problema di Eraclito, vale a dire l’uno distinto in se stesso: a questo punto arriviamo a Schelling.

In fondo, che cosa significa l’uno diviso in se stesso? Il grande problema della filosofia idealistica, e prima di tutto della filosofia schellinghiana, è quello appunto della conciliazione dell’uno con il molteplice, ovvero, dell’infinito, dell’assoluto, con il finito. Come raccordo tra quello che abbiamo detto sul Romanticismo e il pensiero di Schelling ricordo una frase che caratterizza tutta la filosofia di Schelling. Schelling afferma in maniera lapidaria: «Io credo che il passaggio dall’infinito al finito costituisca il problema di ogni filosofia». In effetti tutta la sua filosofia non è altro che il tentativo di risolvere questo problema. Tentativo che però, purtroppo, si può considerare non riuscito. Ripeto: «Io credo che il passaggio dall’infinito al finito costituisca il problema di ogni filosofia»: il problema dell’uno che si scinde in se stesso, il problema del rapporto tra uno e molteplice, tra infinito e finito. Parto da questa affermazione perché ci mette già in una situazione di superamento di Fichte. Schelling si pone direttamente il problema dell’assoluto, cioè il problema del passaggio dall’infinito al finito. In questo senso è all’interno del pensiero romantico. L’assoluto è, al di là dell’io fichtiano, qualche cosa che comprende in sé l’infinito e il finito, il soggetto e l’oggetto, l’io ed il mondo. Ora, se la totalità è l’unione di soggetto e oggetto, di finito e infinito, di spirito e materia, di io e mondo, dice Schelling, si potranno avere due tipi di filosofia: o si cercherà di operare un passaggio dall’oggetto al soggetto, di vedere il rapporto tra oggetto e soggetto a partire dall’oggetto, oppure si potrà fare l’inverso, si potrà partire dal soggetto per arrivare all’oggetto. Schelling articola questa sua posizione dopo i primi confronti con la filosofia fichtiana, a cui in un primo momento aderisce, già intorno ai venti, ventidue anni.

Schelling ha avuto una parabola molto particolare. Le idee di cui parleremo subito sono state concepite da lui prima dei venticinque anni, addirittura il primo scritto importante risale a vent’anni. Poi c’è stata una pausa lunghissima, una pausa che soprattutto è dominata dalla figura di Hegel; dopo il tramonto dell’hegelismo riemerge Schelling, uno Schelling che ha approfondito il problema del rapporto con l’assoluto, ma sfociando nel misticismo e creando la premessa per tutto l’irrazionalismo dell’800. Si tratta dunque di un filosofo che ha avuto una parabola lunga, ma molto curiosa: già a quindici, sedici anni dialogava con Hegel e iniziò a scrivere i primi abbozzi di opere filosofiche. A venticinque il suo sistema è praticamente concluso, poi ha una lunga pausa e alla fine riemerge come un filosofo irrazionalista.

Consideriamo prima la fase prettamente idealistica: «Nello stesso fatto del sapere, l’oggettivo ed il soggettivo sono così uniti che non si può dire a quale dei due tocchi la priorità». Assoluto è indistinzione di soggettivo e di oggettivo, non si può dire a quale dei due tocchi la priorità. «Non c’è qui un primo e un secondo: sono entrambi contemporanei e formano un tutto unico. A volere spiegare questa identità debbo già averla soppressa». Se cerco di spiegare l’identità, già mi pongo l’identità come oggetto, e allora mi trovo all’interno del dualismo tra soggetto e oggetto e ho soppresso l’identità. In questo c’è già tutto Schelling: se parlo dell’identità, se me la pongo come oggetto di conoscenza, essa non è più identità di soggetto e oggetto, è diventato oggetto della mia conoscenza di soggetto, e allora sono già all’interno del dualismo, già non posso più cogliere l’identità, non la posso più esprimere. Qual è la conseguenza? La conseguenza è che l’assoluto, come assoluta identità, si potrà cogliere soltanto con un atto extrarazionale, con una facoltà che non passa per la ragione, non passa per il linguaggio, perché, come sapete, logos significa sia linguaggio sia ragione: ci sono già le premesse del misticismo, dell’irrazionalismo in cui Schelling va a sfociare. «Quindi a volere spiegare questa identità debbo già averla soppressa. Per poterla spiegare, poiché per me non è dato altro all’infuori di quei due fattori del sapere, necessariamente devo preporre l’uno all’altro, uscire dall’uno per venire all’altro. Da quale dei due si esca non è determinato dalla questione. Ora, sono possibili due casi: o è posto come primo l’oggettivo e si domanda come si aggiunga un soggettivo che si accorda con esso (e si ha la filosofia della natura)». O si parte dall’oggetto e si deve spiegare come nasce il soggetto, e si ha la filosofia della natura, oppure, una volta che si sono divisi soggetto e oggetto, si parte dall’altro polo, cioè dal soggetto, e si ha la filosofia trascendentale: «O è posto come primo il soggettivo, ed il problema è come vi si aggiunga un oggettivo che si accordi con esso (e si ha la filosofia dello spirito o filosofia trascendentale)». Quindi sono possibili due filosofie: o si va dalla natura all’io, dall’oggetto al soggetto, e si ha la filosofia della natura, o si va dall’io al mondo, si parte dal soggetto per spiegare l’oggetto, e si ha la filosofia dello spirito, la filosofia trascendentale.

Partiamo quindi, come Schelling, dalla filosofia della natura. La natura, se è l’assoluto oggettivato, come dice Schelling, evidentemente contiene in sé lo spirito. Schelling scinde a questo punto i due termini di natura e spirito, soggettivo e oggettivo, finito e infinito, ma compie una serie di sforzi per non cadere nel dualismo: deve dire sempre che si tratta di due entità accoppiate, il che poi rende difficile spiegare com’è che questa identità a un certo punto diventa invece una dualità. Parte prima di tutto da questa sottolineatura: se la natura è un’oggettivazione, è la parte oggettiva dell’assoluto, allora deve contenere in sé anche lo spirituale: la natura non è semplicemente qualche cosa di materiale, ma è anche qualche cosa di spirituale e di ideale. Schelling arriverà a dire che la natura è preistoria della coscienza o coscienza pietrificata, cioè è spirito che si manifesta in forme materiali. Tutta la natura, anche quella bruta, presenta un elemento di spiritualità. In questo senso viene ripreso il naturalismo italiano del Rinascimento. Nel 1802 Schelling ha dedicato un’ampia opera a Giordano Bruno, ha ripreso lo spirito della filosofia panteista di Giordano Bruno. A questo punto è evidente un forte distacco da Fichte. In Fichte la natura è il secondo momento della dialettica, cioè è il non-io che scaturisce dall’io. Prima c’è la posizione dell’io, l’io pone se stesso, poi l’io nel porre se stesso pone il non-io. La natura in Fichte finisce con l’avere sempre un ruolo subordinato, perché è sempre non-io, vale a dire non-coscienza, anzi è ostacolo alla realizzazione della coscienza. Lo spirito si ritrova sempre la materia come qualche cosa che deve superare. La concezione fichtiana della natura è una concezione negativa, c’è sempre quel “non” davanti, la natura non ha una sua autonomia, una sua dignità di per se stessa. Invece per Schelling la natura non è estranea allo spirito, bensí è spirito oggettivato.

La concezione della natura di Schelling è una concezione di tipo organicistico, che si contrappone al meccanicismo della considerazione della natura fino a lui (con l’eccezione della Critica del Giudizio di Kant). Questo si spiega, ancora, in termini di contrapposizione tra intelletto illuministico e ragione romantica. Il meccanicismo che cosa implica? Che ogni elemento della natura, ogni pezzo della realtà naturale è esterno rispetto a un’altra entità con cui interagisce, che gli sta affianco: per il meccanicismo la natura è costituita di entità esterne le une alle altre. Ma questa impostazione corrisponde alla logica del finito, per cui ci sono tanti pezzi che poi si sommano insieme; è la stessa logica che ha portato alla creazione dell’Enciclopedia. Per Schelling e per la scienza romantica invece si parte dall’opposto, cioè non dal finito e dalla parte, bensí dall’infinito e dall’intero: quello che conta, quello che è sempre primario, è il tutto, è l’intero, e la parte non ha significato se non all’interno dell’intero: non esistono rapporti di esteriorità, esistono soltanto rapporti di parte a tutto. Come possono esistere rapporti di parte a tutto? Evidentemente ci deve essere un principio informatore, un principio che unifica le parti. Si tratta di una concezione della natura nuova, che si può definire organicismo. Mi sembra utile ricorrere a una citazione che chiarifica il pensiero di Schelling a questo proposito: «Il meccanismo da solo è ben lungi dal comprendere tutto ciò che costituisce la natura. Infatti non appena mettiamo piede nel campo della natura organica, cessa per noi ogni concatenazione meccanica di causa ed effetto. Ciascun prodotto organico sussiste per sé medesimo, la sua esistenza non è dipendente da un’altra esistenza. Ora, la causa non è mai lo stesso che l’effetto; solo tra cose del tutto differenti è possibile una relazione di causa ed effetto. Ma l’organizzazione produce se stessa, deriva da se stessa; ogni singola pianta è soltanto il prodotto di un individuo della sua specie e così ogni singola organizzazione produce e riproduce via via all’infinito solamente la propria specie. Ogni organizzazione ha a fondamento un concetto [cioè un principio unico ispiratore che dà organicità alle parti] perché dove c’è relazione necessaria del tutto con le sue parti e delle parti con il tutto, lì è il concetto». [Concetto significa pensiero, idea, spirito. Nel senso idealistico del termine, lo spirito è l’ideale, è il razionale, è il logico presente nella realtà, non è lo spirito inteso nel senso di anima o nel senso della tradizione religiosa]. «Ma questo concetto risiede nella stessa organizzazione, non può esserne affatto separato: essa organizza se stessa. Non la sua forma soltanto, ma la sua esistenza risponde ad un fine. Non si poteva organizzare senza già essere organizzato». In questo c’è una eco anche della Critica del Giudizio di Kant, che aveva individuato un finalismo all’interno della natura. Kant è il vertice dell’Illuminismo, ma è anche colui che apre la via a questo tipo di concezioni diverse, romantiche, è un Giano bifronte, presenta due facce, come è stato detto con un’espressione felice. Schelling prosegue: «La pianta si alimenta e dura in vita grazie all’assimilazione di materie estrinseche, ma non può assimilarsi nulla senza essere già organizzata». Ci deve essere già un principio informatore, gli organismi sono unitari con loro stessi, non consistono di parti staccate e separate. Quindi il tutto prevale sulle parti: questa è un’altra importante caratteristica del pensiero schellinghiano e romantico.

All’epoca di Schelling, la concezione dominante era che ci fosse una forza vitale nella natura. Schelling critica questa concezione, sostiene che la forza vitale è una specie di cosa in sé misteriosa, kantiana, invece ricorre al concetto nuovo di potenza, che ha una vaga eco di carattere aristotelico. La natura, se ha al suo interno lo spirito, intimamente è animata da un dualismo: in tutti i gradi della natura ci dovranno essere due elementi che si contrappongono uno all’altro, che la tengono in una specie di tensione, e quando un elemento, un polo, una delle due potenzialità prende il sopravvento sull’altra, si apre un nuovo livello di contraddittorietà; così si sviluppano i vari regni della natura.

Ci sono tre piani di potenza, cioè tre piani di possibilità di sviluppo. Il primo, che Schelling chiama pro- priamente della “realtà”, che coincide col mondo inorganico: questo non è qualcosa di morto, ma, proprio come diceva Giordano Bruno, una natura tutta quanta divina, tutta quanta animata, come sosteneva anche il naturalismo greco. Non c’è niente di morto, niente di inerte, tutto ha qualche elemento di spiritualità, cioè di idealità. Questo, per Schelling, è dimostrato anche dall’esistenza del magnetismo, dell’elettricità, del chimismo. In tutte queste sfere Schelling vede sempre operanti due forze, due poli che si contrastano l’uno con l’altro. Poi c’è una fascia intermedia, una specie di ponte di passaggio alla natura superiore, alla natura organica, che è data dalla luce, che Schelling considerava come qualche cosa che avvia verso il non materiale. Il vertice della natura è dato da una sfera in cui più pienamente si manifesta l’unione di realtà e di idealità, cioè il mondo organico, in cui Schelling identifica sensibilità, eccitabilità e riproduzione. Sono, secondo il suo linguaggio, uno la prevalenza dell’oggettivo, l’altro del soggettivo, e il terzo il momento sintetico. Ora, quando siamo arrivati alla terza potenza della natura, compare l’elemento di passaggio allo spirito, vale a dire la coscienza umana.

Schelling vede in tutta la natura, a partire dai fenomeni più elementari, l’agitarsi del logos, dell’intelligenza, dell’idea, che poi sboccia nell’uomo, e afferma: «La tendenza necessaria di tutte le scienze naturali, è di andare dalla natura al principio intelligente. Questo e non altro vi è in fondo ad ogni tentativo diretto ad introdurre una   teoria nei fenomeni naturali. La scienza della natura toccherebbe il sommo della perfezione se giungesse a spiri- tualizzare perfettamente tutte le leggi naturali in leggi dell’intuizione e del pensiero. I fenomeni (il materiale) debbono scomparire interamente, e rimanere soltanto le leggi (il formale). Accade perciò che quanto più nel campo della natura stessa balza fuori la legge, tanto più si dissipa il velo che l’avvolge, gli stessi fenomeni si rendono più spirituali ed infine spariscono del tutto. I fenomeni ottici non sono altro che una geometria, le cui linee sono tracciate per mezzo della luce, e questa luce stessa è già di dubbia materialità. Nei fenomeni del magnetismo scompare ogni traccia materiale, e dei fenomeni di gravitazione non rimane altro che la loro legge, la cui estrinsecazione in grande è il meccanismo dei movimenti celesti. Una teoria perfetta della natura sarebbe quella per cui la natura tutta si risolvesse in un’intelligenza». C’è un progredire dal materiale al puro intelligibile, fino a che si raggiunge l’uomo. «I morti ed inconsci fenomeni naturali non sono se non tentativi falliti della natura per riflettere sé medesima; la cosiddetta natura morta è soprattutto un’intelligenza immatura: – perciò nei suoi fenomeni già traluce, ancora allo stato inconscio, il carattere intelligente. La natura attinge il suo più alto fine, che è quello di divenire interamente oggetto a sé medesima, con l’ultima e più alta riflessione, che non è altro se non l’uomo, o più generalmente ciò che noi chiamiamo ragione». In tutta la natura c’è una specie di intelligenza op- pressa dal chiuso della materia, un’intelligenza vincolata. Questa intelligenza si fa strada nelle varie sfere della natura e poi sboccia pienamente nell’uomo. L’uomo è il momento in cui la natura si comprende. «In tal modo, per la prima volta, si ha il completo ritorno della natura a se stessa [l’uomo è il momento del ritorno della natura a se stessa] ed appare evidente che la natura è originariamente identica a ciò che in noi si rivela come principio intelligente e cosciente». Si sente qui una eco della concezione rinasci- mentale dell’uomo come copula del mondo, dell’uomo come elemento di congiunzione di tutte le realtà, perché l’uomo riassume in sé tutta la natura.

Abbiamo detto che l’assoluto è unità di soggetto ed oggetto; abbiamo visto il passaggio dall’oggetto, cioè dalla natura, al soggetto, la genesi dello spirito, dell’intelligenza, della ragione umana a partire da questa graduazione di potenze. La filosofia trascendentale procede in senso inverso, cioè dal soggetto all’oggetto, alla natura. «Porre come primo l’oggettivo e ricavare da esso il soggettivo, è, come abbiamo già accennato, il compito della filosofia della natura. Ora, se una filosofia trascendentale esiste, non le rimane altro che seguire il cammino opposto: partire dal soggettivo come da un primo ed assoluto e farne derivare l’oggettivo. In tal modo la filosofia della natura e quella dello spirito (o trascendentale) si sono distinte secondo le due possibili direzioni della filosofia, e se ogni filosofia deve riuscire o a fare della natura una intelligenza o dell’intelligenza una natura, ne segue che la filosofia trascendentale a cui spetta quest’ultimo ufficio, sia l’altro ramo necessario e fondamentale della filosofia». Non è possibile la filosofia della natura senza la filosofia trascendentale: ciascuna coglie solo una metà della realtà. Bisogna congiungere l’una con l’altra.

Ci sono tre epoche di sviluppo dell’io, in un primo momento predomina l’oggettività, si ha la sensazione, nella quale l’io è passivo di fronte ai messaggi che gli vengono dalle realtà sensibili. Questo momento si può anche paragonare con la fase dell’empirismo ingenuo in filosofia. Nel- la seconda fase, la coscienza non rispecchia semplicemente i dati esterni, ma riflette su se stessa, cioè riflette sulle proprie categorie, diventa consapevolezza di sé nella rifles- sione. Questa fase riproduce, per alcuni aspetti, i procedimenti kantiani: riflettendo su di sé la coscienza identifica i modi di organizzazione della realtà, quindi ritrova le categorie o concetti, che sono i modi di funzionamento della coscienza, del soggetto, dell’io penso in termini kantiani, per organizzare la realtà. Questo secondo momento riproduce la deduzione trascendentale di Kant, il rintracciare le categorie, i modi di organizzazione della conoscenza che Kant aveva già delineato. La terza epoca è quella della spontaneità pura, cioè l’io che pone se stesso, vale a dire il lavoro che ha svolto Fichte. Schelling sottolinea che questo io che pone se stesso è, oltre che un io conoscente, anche volontà, quindi è già qualche cosa che si protende verso il mondo, e opera quindi un passaggio alla filosofia pratica.

Riepilogando, ci sono tre stadi dello sviluppo dell’io. In un primo momento l’io è rivolto semplicemente all’esterno e riceve passivamente i dati dall’esterno. È la fase dell’empirismo ingenuo, la fase della sensazione. Poi l’io riflette sui suoi modi di organizzare la conoscenza esterna, e si ha la fase della riflessione, che equivale al kantismo. Infine l’io supera questo suo porsi di fronte al mondo e arriva alla dottrina del porre se stesso. Questa è la filosofia di Fichte. Una volta che l’io si è pienamente sviluppato, è arrivato a questa terza epoca, si contrappone alla realtà e quindi dà luogo alla filosofia pratica.

Mentre nella prima parte l’io si trova a recepire, è passivo, o comunque è secondario rispetto all’oggetto, adesso, nella filosofia pratica, si è pienamente costituito come soggetto autocosciente e cerca di influenzare la realtà pratica. Prima dipendeva dalla realtà, adesso cerca di calare l’ideale nella realtà: c’è un movimento inverso.  L’uomo da una parte conosce il mondo, dall’altra parte agisce sul mondo: c’è un io teoretico e un io pratico. Anche qui, grosso modo, siamo ancora nel linguaggio e nello schema fichtiano, però a questo punto per Schelling si pone un problema radicale: come fa l’uomo, l’io, il soggetto a recepire l’oggetto, e come fa ad imprimere la propria volontà sull’oggetto? Se questo avviene è sempre per il fatto che tra soggetto ed oggetto c’è un’intima comunicazione, c’è una relazione forte. Allora emerge con evidenza che la filosofia della natura da una parte e la filosofia trascendentale dall’altra sono filosofie ancora parziali, perché sono filosofie che non danno conto dell’unità, bensí della scissione, considerano i rapporti tra oggetto e soggetto, ma appunto dividono soggetto ed oggetto. Allora Schelling deve fare un passo in avanti, deve cercare di cogliere l’identità in se stessa, deve cercare un mezzo, che gli permetta di cogliere oggettivo e soggettivo insieme, e approda all’identificazione di questo elemento nell’arte.

«Non si può concepire come il mondo oggettivo possa accomodarsi secondo le nostre rappresentazioni, [cioè come possiamo conoscere] e queste a loro volta secondo il mondo oggettivo [cioè come noi possiamo agire sulla realtà: quindi non si possono spiegare né la conoscenza, né la vita pratica], se non si ammette che tra i due mondi, l’idea-le ed il reale [cioè l’oggettivo ed il soggettivo] – esiste un’armonia prestabilita. Questa armonia prestabilita peraltro non è neanch’essa concepibile, se non si ammette che l’attività per cui si produce il mondo oggettivo, sia originariamente identica a quella che si manifesta nel volere e viceversa». L’armonia prestabilita è un termine leibniziano, ma Schelling vuol dire: «Guardate che non vi voglio ripetere Leibniz, se c’è un rapporto tra soggetto ed oggetto, non è perché c’è un Dio che fornisce dall’inizio dei tempi un’armonia prestabilita a questi rapporti, ma evidentemente ci dev’essere un elemento originariamente unitario tra soggetto e oggetto». «Ora, è senza dubbio un’attività produttiva quella che si manifesta nel volere. Ogni atto è libero e produttivo, ma la sua produttività è accompagnata da coscienza. Si postula dunque che nel soggettivo, nella coscienza stessa, venga dimostrata la com- presenza dell’attività conscia ed inconscia». Quando dice “conscio” vuol dire pienamente soggettivo, quando dice “inconscio” è come se volesse dire oggettivo. Quando dice “conscio” vuol dire spirituale, quando dice “inconscio” è come se volesse dire materiale, naturale. «Si postula dunque che nel soggettivo, nella coscienza stessa, venga dimo- strata la compresenza dell’attività conscia ed inconscia. Ma una simile attività è soltanto quella estetica». L’attività estetica per Schelling risolve il problema della compresenza di soggettivo e oggettivo, di conscio e inconscio perché è un’attività in cui sono presenti tutti e due questi elementi, come vedremo.

«L’arte è l’unico vero ed eterno organo e documento insieme della filosofia, il quale sempre e con novità incessante attesta quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’operare e nel produrre, e la sua originaria identità col cosciente». La cosa è detta in maniera un po’ complicata, ma in effetti è semplice: Schelling sostiene che l’artista da una parte opera inconsapevolmente, cioè o ha l’ispirazione, che Platone chia- mava divina manìa, oppure non ce l’ha, non se la può dare con uno sforzo cosciente. Quello che si chiama “ispirazione” viene inconsapevolmente all’artista. Nella pro- duttività artistica c’è un elemento inconscio, però se non c’è poi uno sforzo cosciente, cioè la capacità di plasmare i materiali, il marmo e il legno, di usare i colori, se non si conoscono le tecniche con cui si compongono le rime, le note, ecc., cioè se non c’è poi uno sforzo cosciente per dare forma ai materiali inconsci che vengono dall’ispirazione, l’opera d’arte non nasce. Essa è il frutto da una parte di una ispirazione inconsapevole, non controllata dall’artista, quindi non cosciente, inconscia, e dall’altra parte di uno sforzo cosciente per comunicare. L’opera d’arte stessa poi è il regno dell’incontro tra il materiale e lo spirituale, perché nell’opera d’arte ovviamente non vale la materia in quanto tale: viene attribuito un valore estetico all’opera d’arte non perché è fatta di materiali pre- ziosi (anzi spesso le opere d’arte sono fatte di materiali molto deperibili), ma per l’elemento ideale, spirituale che è calato profondamente, in maniera inscindibile, nell’elemento materiale. Quindi sia da parte del genio creatore artistico, sia da parte dell’oggetto, c’è una compresenza di reale e ideale, di spirituale e materiale, di soggettivo e di oggettivo, di conscio e di inconscio, e lo stesso avviene anche nel momento felice dell’estasi da parte di chi contempla l’opera d’arte. Chi contempla l’opera d’arte, a un certo punto si immedesima nell’opera stessa, viene rapito dalla bellezza dell’opera, si ritrova in uno stato estatico, cioè si identifica con l’oggetto, supera la propria soggettività. Quindi la sfera dell’arte, sia dal punto di vista di chi la crea, sia dal punto di vista di chi la fruisce, sia dal punto di vista proprio dell’opera d’arte di per se stessa, è un luogo di incrocio, di intreccio inscindibile di materiale e di spirituale, di soggettivo ed oggettivo, di conscio e di inconscio.

Fino a questo punto siamo ancora nell’ambito della grande filosofia idealistica, però Schelling non si accon- tenta di questo: la dottrina dell’arte come organo della filosofia è per lui ancora interna alla filosofia trascendentale. Abbiamo trovato una sfera particolare della realtà in cui avviene questo incontro, ma all’assoluto in quanto tale ancora non siamo pervenuti. Allora Schelling critica se stesso, è come se dicesse: «Io nella filosofia della natura e nella filosofia trascendentale in effetti mi sono messo dal punto di vista del finito, ma adesso bisogna arrivare a un nuovo punto di vista, cioè al punto di vista dell’infinito stesso, al punto di vista dell’assoluto, perché le altre due filosofie, della natura e trascendentale, sono ancora filosofie che partono da un punto di vista finito».

Ora, porsi dal punto di vista dell’assoluto significa che non si potrà derivare il soggetto dall’oggetto, cioè l’io dalla natura, come abbiamo fatto nella filosofia della natura, né si potrà derivare il mondo dall’io come nella filosofia trascendentale: bisognerà dare pari dignità e vedere come contemporanei, come compresenti, tutti e due questi mondi. Non si potrà prendere per punto di partenza l’uno o l’altro. Schelling arriva alla famosa definizione dell’assoluto come identità degli opposti, anzi, più esattamente, dell’assoluto come identità dell’identità e della differenza, perché se l’assoluto fosse soltanto identità non si darebbe spiegazione del molteplice. Diviene più drammatico il problema di come derivare il molteplice dal- l’unità. Il molteplice deve essere già presente all’interno dell’unità. L’assoluto è unità dell’identità e della differenza. Schelling dice: «Essenza di ogni realtà è sempre l’asso- luto, nulla è imperfetto». Ma è chiaro, perché se tutto è assoluto, tutto è bene, niente può essere male e niente può essere imperfetto. «Essenza di ogni realtà è sempre l’assoluto. Tutte le cose sono sante…». Questa è un’espressione molto bella, in tutte le cose c’è il divino, in tutte le cose c’è l’assoluto, tutte le cose sono l’assoluto. C’è un bel passo in cui Schelling dice pressappoco: «Nel mondo non potrebbe venire meno neppure un frammento, niente, nessuna entità particolare del mondo potrebbe venire meno, perché ogni entità del mondo, pure la più miserabile, è santa, è divina». Sono espressioni molto belle, però sono le stesse espressioni su cui si appunta la critica di Hegel, per cui l’assoluto di Schelling è una notte in cui tutte le vacche sono nere, perché se tutto è assoluto, tutto è santo, tutto è divino, l’assoluto è in tutto, ci troviamo di fronte ad una concezione fortemente statica. Appunto egli dice: «L’uno è in tutto, ogni essere è l’assoluto». Ma se è così, allora perché le cose sono diverse le une dalle altre, cioè qual è il principio di differenziazione, qual è il principio che rende plurale e molteplice il mondo? Questo principio non si riesce a scorgere, e allora c’è una notte che appiattisce tutte le differenze, c’è una notte in cui tutte le vacche sono nere, cioè in cui tutte le differenze, dice Hegel con pesante ironia, si appiattiscono.

Schelling nel 1809 compie una svolta che anticipa quella di trentuno-trentadue anni dopo, dell’ultima parte della sua filosofia. Questa svolta, che fa parlare di un secondo Schelling, di uno Schelling che ormai si allontana dal razionalismo romantico e illuministico e apre la strada all’irrazionalismo, mi sembra ben segnalato dalla lettura successiva che vi propongo, tratta dalle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana del 1809.

Da che cosa è caratterizzata questa svolta? Schelling è pervenuto a un assoluto statico, in cui tutto è divino, tutto è sacro, ma a questo punto si trova di fronte al problema: come si fa a derivare da quest’assoluto così  compatto la molteplicità, la pluralità, il divenire? Schelling è costretto a sottolineare, come già aveva detto nella formula per cui l’assoluto è unità di identità e differenza, che all’interno dell’assoluto già c’è questo principio di differenziazione. Si arriva ad un punto molto delicato, perché questo principio di differenziazione, per cui l’assoluto al suo interno ha un elemento che non è più l’assoluto, ha al proprio interno anche il finito, che è il suo contrario, in termini teologici è un problema drammatico in quanto il finito comprende anche il male. Questo significa che all’interno dell’assoluto c’è anche il male. Siccome l’assoluto, nel secondo Schelling, è sinonimo di Dio, questo significa che il male è presente già in Dio. Il plurale è presente nell’unità, la differenza è presente nell’identità, il male è presente nel bene. Le critiche di Hegel a Schelling sono molto fondate, ma bisogna avere un grande rispetto per questo sforzo, che è uno sforzo in linea con le grandi elaborazioni della teologia. Ci troviamo di fronte a un tentativo analogo a quello di Sant’Agostino, analogo al problema del superamento del manicheismo. Si può dire come i manichei che il mondo è fondato su due principi, il principio del bene e il principio del male, e quindi ogni dualismo è spiegato, però a questo punto il mondo consta di due realtà distinte, il che complica parecchio il tutto (la storia della filosofia specialmente dopo Cartesio, dopo Kant, testimonia che si arriva ad uno scacco partendo dal dualismo). Lo sforzo titanico di Schelling è quello di arrivare a una visione coerentemente monistica per cui il principio è uno solo. In fondo tutta la vita intellettuale di Schelling manifesta uno sforzo di fondare il monismo, ma egli da tutte le parti si ritrova la pluralità, si ritrova l’imperfezione, si ritrova alla fine il male, e non sa come conciliarlo con questa unità. Leggiamo allora come formula il problema dopo questa svolta: «Secondo l’eterno atto della autorivelazione, tutto nel mondo, come lo scorgiamo adesso, è regola, ordine e forma. Ma nel fondo c’è pur sempre l’irregolare, come se una volta dovesse ricomparire alla luce, e non sembra mai che l’ordine e la forma siano l’originario, ma che a qualcosa di originariamente irregolare sia stato imposto l’ordine». Siamo arrivati addirittura all’ipotesi che l’elemento originario sia un elemento di carattere irrazionale, che poi sviluppandosi assume una forma. Al cuore della realtà ci sarebbe l’irrazionale. Comincio a sottolineare questo, perché sostengo che da Schelling, nella sua fase finale, quando occupò la cattedra che era stata di Hegel, hanno preso il via tutte le filosofie irrazionalistiche posthegeliane, tutte le grandi filosofie vittoriose nell’800, e per un altro aspetto anche il positivismo. L’irrazionalismo dell’ultimo Schelling è la matrice dell’irrazionalismo che è durato dal 1841, quando si è insediato sulla cattedra di Hegel, fino ad oggi, e che continua ancora. Riprendiamo la citazione: «Questa è nelle cose la base inafferrabile della realtà». Vedete, è  inafferrabile, non è più comprensibile, non è più a misura di ragione umana: Schelling nega quello da cui era partito, cioè la possibilità di capire l’assoluto. Alla base della realtà c’è qualche cosa di inafferrabile: «Il residuo non mai appariscente, ciò che, per quanti sforzi si facciano, non si può risolvere in elemento intellettuale, ma resta nel fondo eternamente». In questo modo Schelling apre la strada a quel continuatore irrazionalista di Kant che è Schopenhauer: al cuore della realtà c’è l’irrazionale, non c’è la logica, il logos, la ragione, le leggi ordinate di sviluppo della realtà, bensí c’è qualcosa di insondabile che sfugge alla ragione, che è irrazionale. E infatti dice: «Da questo irrazionale è, nel senso proprio, nato l’intelletto. Senza il precedere di questa oscurità, non vi è alcuna realtà della creatura; la tenebra è il suo retaggio necessario». Quindi al fondo della realtà c’è la tenebra, non c’è la luce del logos, e siamo tornati parecchio indietro.

Accenno soltanto brevemente alle dottrine dell’ultimo Schelling. Ancora una volta bisogna tentare di conciliare Dio e il mondo, Dio ed il male, Dio che è uno deve essere partecipe della molteplicità. Dio, che è fuori del tempo, che è l’eterno, deve essere partecipe del divenire, cioè deve essere partecipe della temporalità: l’ultimo Schelling elabora una teoria del Dio vivente, per cui Dio non è qualche cosa che è uguale a se stessa dall’inizio dei tempi: Dio cresce, diviene, ha una sua storia. Questa storia coincide con la stessa storia dell’umanità. Schelling si arrovella in varie redazioni ad un opera che non ha mai finito: Le età del mondo, in cui cerca di spiegare tutta la storia umana come la storia dello sviluppo di Dio stesso. All’interno di questa prospettiva, Schelling abbozza due grandi opere, una Filosofia del mito ed una Filosofia della rivelazione, che sono un tentativo di vedere tutta la storia, fino a quella dei suoi giorni, come una progressiva crescita dell’autorivelazione di Dio, il quale, poi, si erge alla fine vittorioso; Dio viene definito come il “vittorioso”, cioè colui che alla fine dei tempi si erge vittorioso sulla tenebra. Mentre Dio riesce a vincere il male, a ergersi sulle  tenebre, a fare trionfare la luce, l’uomo molto spesso si lega alle tenebre, cade nel male. Concludo sottolineando che la filosofia finale di Schelling pone un’assoluta distanza tra il pensiero e l’essere. Schelling afferma questo contro tutto quello che aveva detto prima: il fondo oscuro, irrazionale dell’essere implica che l’essere è estraneo al pensiero, quindi l’oggetto, se vogliamo tornare ai termini originari, è assolutamente distante e irraggiungibile per il soggetto. Allora quali sono le due strade che si aprono? Da una parte c’è una dottrina dell’estasi: se il soggetto, il pensiero dell’uomo, è infinitamente lontano dall’oggetto, dal cuore della realtà, che è un cuore irrazionale, dice Schelling, si potrà raggiungere questo irrazionale, si potrà raggiungere il cuore della realtà soltanto uscendo fuori del soggetto, cioè con l’estasi. Estasi nel senso etimologico greco di “stare fuori di sé”: il soggetto deve uscire fuori di se stesso per immergersi nell’assoluto. Il termine estasi richiama il misticismo: siamo all’interno di una visione di tipo irrazionalistico-mistico. Si può raggiungere la realtà, si può raggiungere l’essere non più per vie di ragionamento, di conoscenza, e neppure più attraverso l’arte, ma solamente uscendo fuori di sé, perché la distanza tra soggetto e oggetto, tra pensiero ed essere, è una distanza infinita: bisogna uscire fuori dal soggetto, uscire fuori dal pensiero, tuffarsi nell’essere attraverso l’estasi. È aperta la strada a tutte le filosofie irrazionaliste di Schopenhauer, di Kierkegaard, e ad ogni tipo di misticismo. Anche le radici più profonde del positivismo affondano in quest’ultima filosofia di Schelling dalle tinte fortemente irrazionalistiche. Con forte critica nei confronti di Hegel, l’ultimo Schelling sostiene che: «La filosofia hegeliana è una filosofia negativa, è una filosofia che pretende di contrapporre sempre il concetto e l’essenza delle cose all’esistenza delle cose. È una filosofia che passa sempre per il momento della negazione». Questo lo vedremo meglio quando ci occuperemo di Hegel: c’è sempre l’elemento dell’antitesi nella filosofia di Hegel. Si tratta di una filosofia che vede la realtà come tendente a superare se stessa, invece per Schelling l’essere sta là di fronte al soggetto, è positus, è positivo. Ci troviamo al cospetto di un altro esito possibile della filosofia  di Schelling: da una parte c’è l’estasi, cioè il tuffo nell’essere che è irraggiungibile, dall’altra una filosofia positiva, per cui l’essere è quello che è, è quello che ci sta davanti, nella sua concretezza, nella sua realtà, nella contrapposizione alla nostra coscienza, quindi ci dobbiamo immedesimare in quell’essere che è positus, positivo, davanti a noi, senza pensare di volerlo superare, anzi dobbiamo tentare proprio di raggiungerlo, dobbiamo fermarci a una filosofia positiva. Ma questo essere è sempre un essere particolare, allora si nega ancora quello da cui si era partiti,la possibilità di cogliere la totalità. È finito l’anelito romantico verso l’assoluto, totalità, l’infinito di Schelling, padre dell’irrazionalismo mistico e dell’irrazionalismo positivistico.

Fichte   |    Schelling   |   Hegel

Idealismo Tedesco

 

 

Johann Gottlieb Fichte

Fichte, Johann Gottlieb, 19.5.1762 – 29.1.1814,
deut. Philosoph, Portrait, Federzeichnung von
Karl Bauer, 19. Jh.,
~
Fichte, Johann Gottlieb, 19.5.1762 – 29.1.1814, German philosopher, portrait, pen drawing by Karl Bauer, 19th century,

Kant aveva sostenuto che tutta la filosofia precedente a lui era viziata dal dogmatismo della presupposizione dell’esistenza di un ordine, di leggi, all’interno della natura. Kant invece sostiene che l’io è il legislatore della natura. Con Fichte abbiamo una definizione di dogmatismo ancora più radicale, che fa ricadere nel dogmatismo lo stesso Kant . Fichte cioè sostiene che tutta la filosofia precedente, Kant compreso, è dogmatica, in quanto ha creduto nel dogma dell’esistenza di una cosa in sé, di un mondo, di una realtà di per sé stante, indipendente dal soggetto umano. Tutta la filosofia precedente a Fichte, tutta la filosofia precedente alla fondazione dell’idealismo, ha pensato che venisse prima il mondo, prima la realtà materiale, prima l’oggetto e poi il soggetto. Invece le cose stanno esattamente all’opposto. Proprio per questo Fichte si pone il problema decisivo della fondazione ultima della realtà e del sapere (un problema che tra l’altro ai giorni nostri è assolutamente fuori moda, in quanto viviamo in un periodo di relativismo, di soggettivismo). In questo senso la filosofia è per lui dottrina della scienza. Fichte pensa che le varie scienze sono subordinate a postulati, a princîpi, partono da affermazioni non dimostrate e poi procedono con catene deduttive. Le scienze fanno ricorso inoltre a concetti, a metodi, non discussi nell’ambito del discorso scientifico stesso. Questo è vero anche per la matematica: anch’essa, che è la scienza esatta per eccellenza, parte da postulati, cioè da affermazioni non dimostrate. Fichte invece sostiene che la filosofia è l’unica scienza che giustifica i fondamenti dei suoi stessi princîpi, è capace di autofondarsi e quindi è superiore alle altre scienze. In questo senso la filosofia è “dottrina della scienza”, cioè è la dottrina dei fondamenti ultimi, che sono decisivi anche per tutte le scienze. Parte da questa considerazione: ci sono due possibilità di approccio alla conoscenza, una è quella di partire dall’oggetto, dalla cosa, dalla realtà, l’altra è quella di partire dal soggetto, dalla coscienza. Fichte sostiene che bisogna partire dal soggetto, dall’io, dalla coscienza. Fra Kant e Fichte si è verificato uno sgretolamento del concetto di “cosa in sé”, che permette a Fichte di affermare con molta decisione che bisogna partire dall’io, dal soggetto, eliminando completamente la cosa in sé. Il criticismo kantiano suscitò un dibattito intenso, e il risultato di questo dibattito fu lo sgretolamento del concetto di cosa in sé. La posizione dell’io, che Kant aveva installato al centro dell’attenzione, sostenendo che tutta la conoscenza è fenomenica e tutto è quale appare al soggetto, che ha una collocazione centrale, viene lentamente consolidata.La cosa in sé sarebbe la causa delle nostre intuizioni, che poi mettono in moto tutto il processo conoscitivo. Si obietta però a Kant che la categoria di causalità è appunto una delle dodici categorie e quindi si può usare soltanto nel caso di una realtà già inquadrata nello spazio e nel tempo, altrimenti essa è adoperata impropriamente. Ora, come può Kant sostenere implicitamente che la cosa in sé è la causa delle intuizioni, se la cosa in sé per definizione è inconoscibile, come egli stesso afferma? Se la cosa in sé è qualche cosa di inconoscibile, fa parte del noumeno, del mondo soltanto pensabile, ma non conosciuto, è evidente che ad essa, come d’altra parte a Dio e all’anima, non si può applicare la categoria di causalità, che è una delle dodici categorie trascendentali dell’intelletto («trascendentali» significa che entrano in gioco, funzionano solo a contatto con un materiale sensibile, cioè con un materiale già inquadrato nello spazio e nel tempo). Quindi non si può affermare che la cosa in sé è causa delle sensazioni, anzi, a voler cavillare e a volere essere più kantiani di Kant, non si può dire neppure che la cosa in sé esiste, perché l’esistenza è essa stessa una delle dodici categorie, quindi, come non si può applicare a Dio, la categoria di esistenza non si può applicare neppure alla cosa in sé. La cosa in sé si disgrega completamente. Dei due poli, l’io e la cosa in sé, uno cade: la cosa in sé si dissolve, di conseguenza rimane soltanto il soggetto, l’io, la coscienza.

Fichte parte dal fatto che c’è una conoscenza, c’è una esperienza, c’è un’intelligenza delle cose, cioè c’è un legame fra soggetto e oggetto; ora si tratta di capire se vengono prima le cose o viene prima l’io, viene  prima la coscienza. Fichte nella Dottrina della scienza afferma: «Nell’intelligenza dunque, per usare un’immagine, vi è una doppia serie, dell’essere e del guardare, del reale e dell’ideale [in altri termini ci sono l’oggetto ed il soggetto]; ed è appunto nell’indivisibilità di questa doppia serie che consiste la sua essenza, la quale è dunque sintetica, mentre invece alla cosa non compete che una serie semplice, quella del reale e cioè dell’esser posto. Intelligenza e cosa sono perciò direttamente opposte, si trovano rispettivamente in due mondi, tra i quali non c’è ponte di passaggio». L’intelligenza, il sapere, la coscienza, il soggetto, l’io da una parte e le cose dall’altra fanno parte di due mondi tra i quali non c’è ponte di passaggio. L’empirismo ed il razionalismo, ma anche Kant stesso, si sono trovati di fronte a un problema irresolubile perché sono partiti da una concezione dualistica: ci sono le cose e c’è l’io, ci sono le cose che precedono l’io, ma Fichte rileva che se si parte dalle cose non si riesce ad arrivare all’io. Gli empiristi si sono sforzati di arrivarci con il metodo induttivo, ma sono caduti nello scetticismo. I razionalisti con il metodo deduttivo a priori, ma il metodo deduttivo a priori, come già Kant ha dimostrato, implica un salto non giustificato, un passaggio indebito dal mondo delle costruzioni intellettuali al mondo reale. Kant stesso è caduto nel dualismo tra fenomeno e cosa in sé, tra realtà filtrata dal soggetto e realtà oggettiva in se stessa.

Fichte: «Si tratta di dimostrare il passaggio dall’essere al rappresentare, ma questo è quanto i dogmatici non fanno né riescono a fare, perché il loro principio dà ragione soltanto dell’essere, ma non del rappresentare, che è direttamente opposto all’essere. È solo con un gran salto che i dogmatici passano ad un mondo del tutto estraneo al loro principio». Passano dal mondo delle cose al mondo dell’io. Fichte aggiunge un elemento metodologico molto importante: i dogmatici, fra cui rientra a questo punto anche Kant, sbagliano nel vedere le cose come esterne le une alle altre, sostenendo che esiste il mondo ed esiste anche l’io. In questo modo non si riesce a capire qual è il legame tra l’entità mondo e l’entità io: c’è fra loro un rapporto di estraneità. Fichte con molta energia sostiene che questo è un metodo non filosofico.La filosofia, dice Fichte, non può usare la parola anche, cioè non può procedere per enumerazione. I filosofi che lo hanno pre- ceduto, e anche Kant stesso, hanno enumerato. Fichte sostiene che le scienze, che però sono inferiori alla filosofia, procedono per enumerazione e per esempio rilevano che ci sono stelle, pianeti, satelliti ecc., oppure ci sono insetti di questa, quella e quell’altra specie e sottospecie; le scienze cioè sono descrittive e quindi enumerano le cose che si trovano nel loro campo di osservazione, fanno la conta, le mettono l’una vicina all’altra: c’è una cosa, poi un’altra, poi un’altra, anche un’altra, ancora un’altra e così via. Invece la filosofia deve essere una scienza assolutamente a priori, fondata sul ragionamento e non può procedere con l’enumerazione: la filosofia  procede invece per deduzione: bisogna partire da un primo anello della catena e tutti gli altri debbono seguirne come conseguenze logiche; non si può aggiungere una cosa all’altra, non si può dire: c’è il mondo e poi c’è anche l’io, c’è l’oggetto e c’è anche il soggetto, perché questo errore porta al fatto che poi tra l’oggetto ed il soggetto non si riesce a creare collegamento. Tutta la filosofia precedente (ma soprattutto Kant è presente in questa critica) è una filosofia dualistica. Fichte invece si sforza appunto di partire da un principio unico, che a questo punto dovrà essere il principio della coscienza, del soggetto, dell’io.

Leggiamo ancora dall’opera principale di Fichte: «Quell’essere, la cui essenza consiste puramente in questo, che esso pone se stesso come esistente, è l’io come assoluto soggetto. In quanto esso si pone è, ed in quanto è, si pone, e l’io perciò è assolutamente e necessariamente per l’io. Ciò che non esiste per se stesso non è io. Si domanderà certo: che cosa ero io dunque prima che giungessi all’autocoscienza? La risposta naturale a questa domanda è: io non ero affatto, perché io non ero io. Non si può pensare assolutamente a nulla, senza pensare in pari tempo il proprio io, come cosciente di se stesso; non si può mai astrarre dalla propria autocoscienza». Sulla base di una visione del mondo materialistica l’io viene dopo il mondo: prima c’è il mondo, poi dal mondo si genera una complessità crescente da cui alla fine sboccia l’io, il pensiero, la razionalità umana. Viene prima il mondo e poi l’io. Questo è un processo genetico, cioè spiega la genesi dell’io dal punto di vista temporale, cronologico, invece il discorso che Fichte vuole fare è un discorso di validità puramente logica, indipendente dalla dimensione temporale. Questa è un’altra difficoltà del suo ragionamento. Quando egli parla della successione di io, non-io e io empirico, la sua famosa triade dialettica, non si sta riferendo a un fatto che avviene nel tempo, per cui veramente c’è un primo momento, un secondo momento ed un terzo momento: quei tre “momenti” sono in qualche modo contemporanei, sono “momenti” in senso logico, ma non in senso cronologico. Bisogna tenere presente che l’idealismo tedesco elabora discorsi di validità logica, non discorsi di genesi empirica.

Per Fichte, anche se dal punto di vista cronologico, genetico, l’io viene dopo, dal punto di vista logico invece l’io è un prius assoluto. Per quanto abbiamo letto: che l’io è conoscenza, è soggetto, è coscienza, ma nello stesso tempo è anche una cosa, cioè è quella cosa che è l’io. L’io come posizione iniziale assoluta. La prima formula della dialettica di Fichte è: “L’io pone se stesso”, l’io nel porre se stesso pone sé come soggetto, ma anche come un’entità, come una cosa, quindi, ponendo l’io come inizio, si pongono sin dall’inizio l’essere e il sapere, la cosa e l’intelligenza della cosa, l’oggetto ed il soggetto. Se pongo come primo l’oggetto, la cosa, il mondo, non riesco a capire come scaturisce l’io; la nascita dell’io si spiegherà solo dal punto di vista genetico, della teoria dell’evoluzione, che però è un fatto esteriore, è un fatto empirico, è un fatto scientifico, ma da un punto di vista logico debbo porre all’inizio l’io, perché nell’io ritrovo immediatamente, automaticamente, anche la cosa, cioè ritrovo tutte e due le serie, la serie della realtà e la serie della conoscenza, la serie del non-io e la serie dell’io. L’io come prius assoluto permette di ricavare il non-io dal proprio interno perché ce l’ha già costitutivamente dentro, mentre invece se partissimo dal non-io, dall’oggetto, dal mondo, non potremmo più risalire all’io. Infatti la filosofia precedente è naufragata perché non riesce a compiere questo passaggio e deve fare un salto dogmatico.

Continua Fichte: «Non vi è nulla di posto originariamente, tranne l’io; e questo soltanto è posto assolutamente. Perciò un’opposizione assoluta non può aversi se non ponendo qualcosa di opposto all’io. Ma ciò che è opposto all’io è non-io. All’io è opposto assolutamente un non-io». Nel momento in cui noi poniamo l’io, nello stesso momento (è un “momento” secondo solo dal punto di vista logico, ma è contemporaneo dal punto di vista cronologico) noi poniamo pure il non-io e ci ritroviamo tutte e due le serie, la serie del soggetto e la serie dell’oggetto. Per quale motivo? Perché l’io è coscienza, ma la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa, non esiste una coscienza vuota, quindi quando pongo l’io, la coscienza, pongo anche l’oggetto della coscienza, pongo anche il contenuto della coscienza, cioè pongo anche quello che non è coscienza. Visto che coscienza è sinonimo di io, nel porre quello che non è coscienza, pongo il non-io. Come dice Fichte: «L’io nel porre se stesso pone il non-io», perché l’io è coscienza, ma la coscienza è come uno specchio, e anche se rispecchia il vuoto pur sempre rispecchia qualche cosa; la coscienza implica proprio costitutivamente in sé il concetto di essere coscienza di qualche cosa: se una coscienza non è coscienza di qualche cosa non è coscienza. Coscienza per gli idealisti non significa il sentimento morale, ma indica la consapevolezza. Essere consapevoli significa sempre essere consapevoli di qualche cosa, quindi, come nello specchio ci sono sempre lo specchio e la cosa che viene rispecchiata, l’immagine riflessa, così nella coscienza c’è sempre la coscienza e quello che è oggetto di coscienza, ci sono sempre l’io e il non-io.

Questo legame non vi è nuovo, in quanto il primo grande esempio di questo tipo di ragionamento lo avete trovato in Parmenide, il quale ha sostenuto che il pensiero è inscindibile dall’essere: grosso modo è lo stesso tipo di intuizione di Fichte. Non può esistere un pensiero che sia pensiero di niente, perché, ammesso che il pensiero sia il pensiero anche del niente, del vuoto, della morte, della nullità, la mente ha per oggetto il nulla, ha per oggetto il vuoto e quindi ha pur sempre un oggetto. Già Parmenide ha sottolineato che il pensiero è sempre inevitabilmente correlato all’essere. Allora, se prendo come entità di partenza il pensiero, la coscienza, mi ritrovo automaticamente dentro di quella anche l’essere e se il pensiero lo chiamo io, mi ritrovo qualche cosa di diverso dall’io, cioè mi ritrovo il non-io. Quindi l’io pone se stesso: primo momento della dialettica. Secondo momento: l’io, nel porre se stesso, pone il non-io, inevitabilmente.

«Dalla proposizione materiale [avente cioè un suo proprio contenuto, che è appunto l’io nella sua identità con se stesso] io sono, derivò, facendo astrazione dal suo contenuto, quella puramente formale o logica A=A». Che cosa significa che questa proposizione è materiale? Fichte qui polemizza con Kant perché vuol dire: «Quando affermo che l’io pone se stesso, pongo non solamente la forma del conoscere, a cui Kant si era limitato, ma pongo anche un contenuto». Implicitamente vuol dire che Kant ha avuto questo limite, che ha fatto un discorso sulla metà della conoscenza, cioè ha fatto il discorso della Critica della ragion pura, dove per “pura” si intendono strutture puramente formali, ma ha lasciato fuori il contenuto, e quel contenuto poi risale alla misteriosa e impenetrabile cosa in sé, e quindi si è ritrovato col dualismo di cui dicevamo. Con l’affermazione che l’io pone se stesso, si parte invece da un’affermazione che è contemporaneamente forma e contenuto, in quanto ha come contenuto l’esistenza di quella cosa che è l’io. Mentre il punto di partenza di tutta la filosofia kantiana è soltanto la forma, e di fronte a questa forma si erge sempre il contenuto e si rimane all’interno del dualismo, per Fichte il contenuto è presente già nella forma, quindi il dualismo è superato.

Perché è così importante il superamento del dualismo? Qual è il problema? Kant a un certo punto nella Critica della ragion pura dice che l’uomo è prigioniero della propria soggettività, delle proprie forme, del fenomeno, e non si può avventurare alla conoscenza del reale, del mondo, perché il mondo è impenetrabile, è come l’oscuro mare che circonda un’isola. In altri termini, l’uomo di Kant è un uomo prigioniero della propria soggettività, ma se è prigioniero della sua soggettività, non conosce veramente il mondo, perché la cosa in sé nella sua oggettività è impenetrabile. Questo significa che l’uomo ha un forte limite, anche nella sua azione. Invece Fichte, che scrive nel 1794, veramente coglie tutte le grandi speranze della Rivoluzione francese (sapete che Fichte ha scritto un importante libro per la rettifica del giudizio del pubblico sulla Rivoluzione francese). Fichte crea una filosofia su basi rigorosamente fondate dal punto di vista logico per la quale l’uomo ha una potenza sconfinata, perché non è estraneo alla natura, non è circondato da una cosa in sé come Kant sostiene. L’uomo di Fichte produce egli stesso il non-io, quindi il non-io, il mondo, la natura, la realtà, non gli sono estranei; la filosofia di Fichte si avvia (perché poi il pieno compimento di questo processo si avrà in Hegel) ad essere una filosofia fortemente monistica, in cui c’è una sola realtà. Ma il fatto che ci sia una sola realtà, per l’uomo significa che egli è padrone di quella realtà, che il pensiero è pienamente compenetrato all’essere, l’io può dominare il non-io, cioè l’uomo può essere il signore del mondo. Si tratta di una filosofia che dà all’uomo la base di un possibile progresso indefinito, come vedremo poi nella seconda parte della filosofia di Fichte.

Torniamo alla prima affermazione: «io sono io», che è una posizione di forma e contenuto contemporaneamente. Da questa affermazione si astrae l’aspetto formale che è il primo principio della logica, il principio di identità A=A. «Dalla proposizione annunciata nel presente paragrafo deriva, per legge dell’identica astrazione, il principio logico A=non A, che io chiamerei principio del- l’opposizione». Si tratta di un aspetto che considereremo meglio nella dialettica hegeliana, va sottolineato però che qui si apre un altro discorso di estrema importanza. Nella situazione precedente a Fichte, A=A e B=B, ma questo è il mondo della separatezza, delle cose esterne le une alle altre, per cui esiste la realtà A e la realtà B, esiste l’uomo ed esiste il mondo, esiste la ragione da una parte, esiste la storia dall’altra, sono realtà diverse e non comunicanti tra loro, perché vale il principio di identità. Quando abbiamo parlato delle antinomie della ragione in Kant, abbiamo visto che egli è fermo a una dialettica dicotomica (cioè a due termini): c’è la tesi e l’antitesi, c’è A e c’è B, A=A e B=B, queste due entità non comunicano tra loro. Invece dire che A diventa uguale a non-A, cioè l’io dà luogo al non-io, significa che c’è un’essenziale unità delle cose, all’interno delle quali si viene a sviluppare la contraddizione.

Solo in apparenza stiamo parlando di entità astratte: il pensiero dialettico, che sboccia con Fichte e si realizza in Hegel, è stato poi messo da parte insieme con le aspettative di emancipazione dell’umanità maturate con la Rivoluzione francese: dal 1789 al 1848 la borghesia fa la sua rivoluzione, pensa di poter emancipare tutta l’umanità, combatte in nome della libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza, dopo il 1848 essa si rende conto di non essere una classe emancipatrice in via definitiva in quanto essa stessa opprime un’altra classe, si trova sulle barricate del ’48 gli operai, i proletari, arresta lo sviluppo della sua più grande cultura e in buona parte la rimuove, la dimentica. Dopo il 1848 siamo entrati in un periodo di decadenza culturale che continua fino ai giorni nostri. Il grande pensiero borghese nato a ridosso della Rivoluzione francese con la prospettiva dell’emancipazione completa dell’umanità, della liberazione di tutte le sue energie, è il pensiero che la stessa cultura dominante ha dovuto dimenticare in favore del pensiero della decadenza, cioè del positivismo da una parte e dell’esistenzialismo dall’altra. Il grande pensiero fichtiano, schellinghiano, romantico, hegeliano è stato cancellato, non è più qualche cosa di vivo nella cultura contemporanea. Il fatto di affermare esclusivamente la mentalità secondo cui A=A e B=B dipende in qualche modo dalla speranza patologica della borghesia che la storia si sia fermata, perché invece se la storia è autocontraddittoria, il fatto che al feudalesimo è venuto a succedere il capitalismo implica che a questo succederà qualche altra cosa, un nuovo assetto dei rapporti umani. Per questo la borghesia cancella il pensiero fichtiano, hegeliano, dialettico, e torna a modalità di pensiero precedenti, convincendosi che le cose sono ognuna semplicemente uguale a se stessa.

Procediamo con la lettura. «Il non-io, solo in tanto può essere posto, in quanto nell’io, nell’identica coscienza a se stessa, è posto un io al quale il non-io può essere opposto. Ora, il non-io deve essere posto nella coscienza identico a se stesso, ed in questa medesima coscienza deve essere posto anche l’io [l’io empirico] in quanto opposto al non-io». Viene sostenuto che se all’io si contrappone il non-io, l’io non è più l’io iniziale assoluto, ma diventa qualche cosa di diverso, in quanto viene limitato, non è più l’io assoluto (assoluto significa ab-solutus, cioè sciolto da vincoli), assolutamente libero. Nella prima fase della dialettica l’io pone se stesso, c’è solo l’io: già abbiamo detto a proposito di Kant che la libertà consiste nel non avere costrizione esteriore; l’io originario, essendo solo, è assolutamente libero, è “assoluto” appunto, è sciolto da vincoli, è libero. All’origine per Fichte c’è l’io, ma questo equivale a dire che all’origine c’è la libertà, perché l’io non è condizionato da niente fuori di sé, nel primo momento logico non ha un non-io che lo limiti, quindi è assoluto, è del tutto libero. Il cominciamento, l’inizio logico della realtà è l’io con la “I” maiuscola, ovvero la           libertà, ovvero l’assoluto.

Abbiamo detto però che l’io, essendo coscienza, immediatamente deve contrapporre a sé un contenuto, cioè un oggetto, un non-io, ma nel momento in cui c’è un non-io che si contrappone all’io, l’io non è più io con la “I” maiuscola, illimitato, assolutamente libero, bensí è limitato dal non-io, e quindi diventa un io limitato, cioè un io empirico. Il terzo momento della dialettica è dato da questa formula: l’io oppone, nell’io, all’io divisibile un non-io divisibile. La terza fase della dialettica è la nascita degli io empirici, dei soggetti umani concretamente esistenti, gli io divisibili, limitati, opposti al non-io.

L’io empirico a questo punto non è semplicemente l’uomo di una razza, di un paese, l’uomo è la scaturigine dell’io con la “I” maiuscola, cioè dell’io assoluto, della libertà assoluta, di conseguenza la sua vera natura è la libertà, e tutta la vita dell’uomo, dell’umanità nel suo complesso, nella sua interezza, sarà uno sforzo di riattingimento della libertà superando di volta in volta gli ostacoli che sono posti dal non-io. La storia sarà la storia del tentativo di ritornare, metaforicamente, alla situazione di io puro, di io assoluto, di assoluta libertà. Tutta la storia umana sarà la storia della progressiva liberazione dell’uomo, liberazione dal non-io, cioè da quello che non è umano, da quello che non è razionale. Il non-io da cui l’uomo si deve continuamente liberare potrà prendere tantissime forme, prima di tutto quelle dell’ostilità della natura (poi Schelling rimprovererà a Fichte questa visione riduttiva della natura). Per Fichte l’uomo è condizionato per esempio dalle intemperie, è condizionato dalla furia degli elementi, dalle piene dei fiumi, da tutti gli aspetti ostili della natura, e cerca di vincerli con la propria ragione. L’uomo è condizionato dall’oscurità della notte, che gli incute terrore, gli impedisce di lavorare, allora cerca mezzi per vincere il non-io dell’oscurità, delle tenebre e inventa strumenti per rendere chiara la notte. L’uomo è schiavo delle malattie, ma sempre più la storia dell’umanità è una storia di vittoria contro le malattie, che costituiscono limitazioni della libertà dell’uomo. Tutta la storia delle scienze, della tecnica, tutta la storia dell’umanità è una storia di progressivo avanzamento della libertà, in quanto l’uomo allarga la propria zona di indipendenza rispetto alla natura.

Il non-io è tutto quello che non è ragione, quindi il non-io si può annidare anche nell’uomo stesso. Prima di tutto è presente nella società, nelle tirannie, in tutte le forme in cui la libertà dell’individuo è conculcata, è ostacolata. La storia è storia di liberazione dell’uomo dalla schiavitù, dalle oppressioni, dai dispotismi. L’uomo si deve liberare anche da un non-io interno, in quanto all’interno dell’uomo non c’è solo la ragione, ma ci sono anche quelle che Kant ha chiamato inclinazioni. Quindi l’uomo deve lottare per superare anche gli ostacoli interni alla propria liberazione. La propria liberazione consisterebbe nell’arrivare alla libertà assoluta, cioè alla razionalità assoluta, alla coscienza assoluta delle origini: libertà, come per Kant, coincide con razionalità. Rispetto a questo l’uomo ha molte passioni e inclinazioni che lo spingono in altre direzioni.

Siamo in presenza di una visione titanica dell’uomo (il titanismo è uno degli aspetti del Romanticismo): per Fichte l’uomo, come un titano, continuamente lotta contro il non-io, contro la natura, contro gli altri uomini che ostacolano la sua libertà e contro gli ostacoli interni che porta dentro di sé alla propria libertà. È una visione molto bella del destino umano: una volta che l’uomo, per Fichte, ha superato uno di questi ostacoli, quindi ha ampliato la libertà, vede riemergere a un livello superiore, a un livello più complesso, un’altra forma di ostacolo, cioè un altro aspetto del non-io, e deve continuamente proiettarsi contro questi nuovi ostacoli e superare le nuove manifestazioni del non-io per affermare l’io, cioè l’indipendenza da ogni condizionamento, la libertà. È chiaro che questo compito è infinito, che le generazioni non bastano per arrivare a esaurirlo: l’individuo, ma anche intere nazioni, intere generazioni non bastano per raggiungere la libertà, anzi la libertà è qualche cosa che nella sua purezza è irraggiungibile.

L’uomo progressivamente amplia i propri orizzonti di libertà, ma non ci si può illudere sul fatto che possa raggiungere la perfetta libertà, cioè ritornare allo stadio di io assoluto. In questo mi pare importante accennare a un parallelo significativo con la poesia di Foscolo. Foscolo è vissuto più o meno contemporaneamente a Fichte, è morto tredici anni dopo. Anche se Foscolo è vissuto in Svizze-ra e conosceva il tedesco, probabilmente non ha letto  Fichte, ma questo tipo di impostazione della visione della storia umana era qualcosa che circolava negli intelletti più lucidi di quell’età, che aveva vissuto l’empito di libertà della rivoluzione, e poi, nel caso di Fichte e di Foscolo, le lotte di liberazione contro Napoleone, che avevano portato a una ripresa degli ideali di libertà, intesa anche come libertà dei popoli. Fichte ha scritto i Discorsi alla nazione tedesca proprio per sollevare lo spirito tedesco contro l’invasione napoleonica. Dopo la Rivoluzione francese, il tema della libertà come libertà dei popoli aveva avuto una larghissima circolazione, era presente in Fichte, era presente in Foscolo. Ci sono in Fichte espressioni che ricordano la  filosofia implicita nei Sepolcri di Foscolo: noi abbiamo un compito di progresso, questo compito di progresso non lo portiamo avanti soltanto noi della nostra generazione, esso viene continuato dalle generazioni che si succedono le une alle altre; bisogna andarsi ad ispirare ai sepolcri dei grandi proprio per attingere energie per portare più in avanti il compito di progresso, il compito di libertà. C’è in Foscolo lo stesso concetto di Fichte di un compito che è di tutta l’umanità, che le generazioni si passano l’una all’altra come corridori a staffetta che si passano un testimone. C’è anche una fortissima analogia nel concetto di immortalità, perché per Fichte l’immortalità dell’uomo consiste nell’immortalità del compito che si è dato: sono mortale, ma divento immortale perché il piccolo aiuto che posso dare all’ampliarsi degli orizzonti umani, il piccolo contributo che posso dare alla libertà dell’uomo, si sommerà a quello degli altri, e siccome gli altri continueranno il mio compito di libertà, io sarò immortale, nel senso che quello che di positivo ho fatto lo proseguirò negli altri, o, meglio, proseguirà negli altri.

Passo alle citazioni dalla Missione dell’uomo, del 1800: «La tua missione non è il mero sapere, ma agire secondo il tuo sapere: così risuona anche nel più profondo della mia anima, non appena io mi raccolgo soltanto un attimo e osservo me stesso. Tu non esisti per contemplare ed osservare oziosamente te stesso o per meditare malinconicamente le tue sacrosante sensazioni, no, tu esisti per agire, il tuo agire e soltanto il tuo agire determina il tuo valore». La filosofia di Fichte viene definita idealismo etico: Fichte riprende la superiorità della ragion pratica rispetto alla ragion pura già affermata da Kant. Per Fichte conoscere il non-io serve soltanto a capire meglio come affrontarlo: la conoscenza è subordinata alla pratica, e la pratica è finalizzata a superare gli ostacoli del non-io. Questa visione implica una centralità del ruolo dell’intellettuale, su cui Fichte ha scritto un’opera minore, ma importantissima, La missione del dotto. Quale sarebbe la missione dell’uomo di cultura? Esattamente quella che oggi gli uomini di cultura non si assumono: il dotto deve individuare quali sono gli ostacoli che il non-io pone nell’epoca storica, per aiutare l’uomo a elaborare la strategia migliore, atta a superare questi ostacoli. Ogni epoca storica presenta determinati aspetti del non-io, perché abbiamo detto che, superati certi ostacoli, ne nascono altri. L’uomo di cultura ha uno sguardo più lucido, ha il compito di guardare più lontano, cioè di vedere quali sono gli ostacoli che si frappongono all’ulteriore liberazione dell’umanità, deve costituire l’avanguardia dell’umanità che combatte per la propria libertà, deve essere quello che, col suo lucido intelletto, scorge prima degli altri gli ostacoli e segna la rotta del progresso.

Questa è la missione del dotto per Fichte, che ribadisce la finalizzazione pratica del conoscere: «In breve, non esiste affatto per me un puro e semplice essere, che non mi riguardi e che io contempli solo per il gusto di contemplarlo; quello che in generale esiste per me, esiste solo mediante la sua relazione con me. Ma ovunque è possibile solo una relazione con me e tutte le altre sono soltanto sottospecie di questa: la mia missione di agire moralmente. Il mio mondo è oggetto e sfera dei miei doveri, e assolutamente niente altro; un altro mondo, o altre qualità del mio mondo non esistono per me». Non c’è un mondo esistente di per se stesso, non esiste una realtà che sta lì per essere contemplata: il mondo è sempre in relazione al soggetto, ma nel senso che esso è oggetto e sfera dei doveri e assolutamente niente altro. Come dice in un altro brano: «Il mondo è il materiale del dovere reso accessibile ai sensi». Come per Kant, quando si parla di io, di soggetto, si intende la ragione, non si intendono le inclinazioni: il mondo deve essere trasformato da me per i miei fini, dove questo me è l’io penso di Kant, è l’io assoluto di Fichte, cioè è l’assoluta razionalità. Il mondo deve essere ridotto a misura dell’uomo, dove per “uomo” si intende l’essere razionale, e la libertà dell’uomo coincide con la sua razionalità, non coincide con le sue inclinazioni: si tratta dell’uomo con la “U” maiuscola.

«Non agiamo perché conosciamo, ma conosciamo perché siamo destinati ad agire; la ragion pratica è la radice di ogni ragione. Le leggi dell’agire sono immediatamente certe per gli esseri razionali». Anche qui si avverte un riecheggiamento di Kant: per Kant l’imperativo c’è, non bisogna dimostrarlo, è una presenza nell’uomo, come voce del dovere, quindi le leggi dell’agire sono immediatamente certe per gli esseri razionali. «Il loro mondo è certo solo per il fatto che quelle sono certe. Non possiamo sottrarci alle prime senza che per noi il mondo e con esso noi stessi si sprofondi nell’assoluto nulla. Noi ci solleviamo da questo nulla e ci conserviamo oltre questo nulla solo mediante la nostra moralità». Perché altrimenti si tratterebbe di un mondo che è pura esteriorità, è insignificante, è assolutamente privo di ogni valore e di ogni senso. Il mondo ha valore in relazione al nostro compito di progressiva liberazione, cioè di affermazione dell’io, vale a dire di affermazione dei valori superiori dell’uomo.

«Posto questo collegamento, la proposizione sopra formulata: “l’uomo è perché è”, si trasforma nella seguente: “l’uomo deve essere ciò che egli è, unicamente per ciò che egli è”, ossia tutto ciò che egli è, deve essere ricondotto al suo io puro». Che cosa vuole dire Fichte? Siamo in presenza di un’affermazione di radicale umanesimo: non c’è niente di superiore all’uomo, non c’è niente di superiore all’io. Qual è il compito dell’uomo? Quello di diventare più uomo, cioè quello di diventare più razionale e più libero; l’uomo è zavorrato, appesantito, schiacciato dall’io empirico, è diventato io limitato, deve riattingere la propria natura di assoluta libertà, cioè deve ritornare allo stadio di io puro, assoluto, di assoluta razionalità, deve sconfiggere, per essere veramente uomo, tutto quello che è irrazionale nel mondo. Questo è il compito dell’umanità. Altri motivi per giustificare l’esistenza, di carattere trascendente oppure di carattere invece egoistico, non si possono fondare: si può semplicemente partire dal fatto che l’uomo esiste in quanto essere razionale e quindi il suo compito non è altro che quello di perfezionare la propria razionalità, di imporre al mondo la propria razionalità. In fondo è la stessa idealità che era presente nell’Umanesimo italiano: l’uomo deve perfezionare la propria natura, arrivare a realizzare in maniera più perfetta la propria natura stessa.

«Tutto ciò che egli è, deve esserlo unicamente perciò che è un io; e ciò che egli non può essere, in  quanto è un io, egli non deve assolutamente cercare di essere». L’uomo deve tendere alla razionalità. Di conseguenza quello che è esteriorità, quello che non è la sua interiorità, la sua coscienza, la sua ragione, lo porterebbero a perdere se stesso. Se l’uomo sprofonda nella materia (oggi si potrebbe dire nel consumo) sprofonda nel non-io, cioè pretende di realizzarsi in qualche cosa che è esterno a sé, e quindi, invece di realizzarsi, si perde. Il mondo del consumo è un mondo di perdita dell’io, nel linguaggio del pensiero successivo è un mondo di alienazione, in cui c’è altro da sé, non c’è l’io, ma il contrario dell’io, cioè il non-io. Quindi ci si potrà realizzare soltanto se si realizzerà la propria superiore interiorità, cioè la razionalità. Se ci si volge ad accumulare ricchezze, a perseguire carriere, oppure a fruire di beni di consumo – tutte esteriorità rispetto all’io – non si conseguirà la realizzazione dell’io, bensí la perdita dell’io, il non-io, l’an- nientamento dell’io.

«Poiché l’uomo è fine a se stesso, egli deve determinarsi da sé e non lasciarsi mai determinare da qualcosa di esterno. Egli deve essere ciò che è, soltanto perché egli vuole e deve voler essere così. L’io empirico deve essere determinato nel modo in cui potrebbe essere determinato eternamente. Esprimerei dunque il principio della morale con la formula seguente: “agisci in modo che tu possa pensare la massima della tua volontà come legge eterna per te”». È chiaro che anche qui Fichte sta seguendo le orme di Kant, ma dice qualche cosa di più forte di Kant stesso. Kant afferma: «Agisci in modo che la tua volontà possa valere come legislatrice universale». È come se Fichte dicesse: «Non puoi agire immerso nella banalità, pensando che potresti fare questo, poi potresti fare quest’altro, ecc. No, in ogni circostanza c’è una sola cosa che puoi fare per ampliare gli orizzonti della libertà. Se fai quello, ti iscrivi nella storia dell’eternità, perché stai facendo compiere all’umanità che è in te quel famoso piccolo passo in avanti per ampliare i propri orizzonti di libertà. Se tu non fai esattamente quel passo, compi una banalità, ti perdi nel non-io, ti perdi nell’esteriorità. Devi invece agire in ogni momento pensando che quel momento è un momento decisivo, perché in te si gioca l’umanità, ma l’umanità che è in gioco in te lo è in tutti gli altri uomini». Ogni momento in cui ci si lascia andare a un’esteriorità, a una banalità, a una dissipazione, a un cedimento al carrierismo, all’egoismo, alle inclinazioni, è un momento in cui invece di vincere l’umanità, invece di far fare quell’altro piccolissimo passo in avanti all’umanità sulla via della sua liberazione (capire un problema, rimuovere un ostacolo pratico, ecc.) vince l’esterno, cioè vince il non-io, e allora non ci si iscrive nell’eternità, ci si iscrive nell’inferno della banalità quotidiana.

«L’uomo ha la missione di vivere in società; egli deve vivere in società; se viene isolato, non è un uomo intero e completo, anzi contraddice a se stesso». Il cammino di liberazione per Fichte non può avvenire se non in comunicazione con gli altri io. Per Fichte il concetto di “io” non è un concetto di carattere solipsistico, egoistico: l’io è la struttura trascendentale comune a tutti gli uomini; quando parla di io, parla in sostanza dell’umanità. Non è possibile la realizzazione della libertà se non all’interno della comunità.

«Dice Rousseau: taluni si ritengono padroni di altri uomini, mentre sono invece più schiavi di loro, ma avrebbe potuto dire ancora più esattamente: chiunque si ritiene padrone di altri uomini è uno schiavo egli stesso. Se anche non sempre lo sia in realtà, pure ha certamente un’anima da schiavo e striscerà bassamente ai piedi del primo che sia più forte di lui e lo sottometta. È davvero libero solo colui che vuol rendere libero tutto ciò che lo circonda, e che riesce a diffondere effettivamente intorno a sé la libertà, grazie ad un’influenza di efficacia sicura, anche se l’origine di essa possa passare inosservata». È qui ripreso il concetto kantiano espresso nella seconda formula dell’imperativo categorico per cui gli uomini sono tutti fini in sé, cioè sono tutti membri dell’umanità razionale, quindi non si deve mai avere un atteggiamento di strumentalità verso l’altro uomo. «A nessuno è lecito agire su altri uomini come su materia bruta o sull’animale, onde realizzare per mezzo loro un qualsiasi scopo suo senza far conto alcuno della loro libertà. Non gli è concesso neppure rendere virtuoso o saggio o felice alcun essere ragionevole contro la sua volontà. A prescindere dal fatto che questo sforzo sarebbe vano, che nessuno può divenire virtuoso o saggio o felice se non col proprio lavoro e con la propria fatica, è certo che egli non deve neppure volerlo fare, quand’anche potesse o credesse di potere, perché ciò è ingiusto ed egli si porrebbe così in contraddizione con se stesso. Il fine supremo ed ultimo della società è la completa unità e l’intimo consentimento di tutti i suoi membri».

Giungiamo alla visione molto simile a quella del Foscolo di cui vi ho accennato. «Si accresce il senso della nostra dignità quando diciamo a noi stessi ciò che ognuno di noi può dire a se medesimo: – La mia esistenza non è inutile e senza scopo, io sono un anello necessario della grande catena che si inizia con l’elevarsi del primo uomo alla piena coscienza della sua esistenza e si protende verso l’eternità. Quanti mai tra gli uomini furono grandi e saggi e nobili, tutti quei benefattori del genere umano dei quali io apprendo i nomi segnati nella storia del mondo, e quelli più numerosi ancora i cui meriti vivono nelle opere sussistenti ancora senza che si ricordino i loro nomi, tutti questi hanno lavorato per me». Viene qui espresso un forte concetto che sarà proprio della cultura dell’ ’800, dello storicismo: noi non siamo i primi venuti su questa terra, ma arriviamo buoni ultimi, e tutto quello che siamo, la libertà che già abbiamo raggiunto, il fatto che possiamo accendere la luce e leggiamo ecc., significa che c’è stato uno spianamento del cammino della libertà compiuto da tantissimi uomini, alcuni dei quali sono ricordati come geni, come Galvani, Volta, coloro che hanno scoperto l’elettricità, ecc., altri sono oscuri, sono morti senza lasciare i loro nomi, ma senza il loro contributo noi non saremmo liberi di poter stare a discutere in questa sala, saremmo schiavi delle tenebre, non potremmo leggere, tanto per fare il primo rilievo che viene in mente dalla situazione in cui ci troviamo. Noi siamo quello che siamo (ci troviamo ad un certo punto nel cammino della libertà), grazie a tutti gli sforzi di liberazione compiuti dai nostri avi, anche quelli di cui non ricordiamo i nomi. «Io ho raccolto la messe per cui essi lavorarono; io ricalco su questa terra che essi abitarono le loro orme benefiche. Io posso, tosto ch’io voglia, dar mano a quello stesso compito nobilissimo che essi si erano imposto, di rendere sempre più saggi e felici i nostri fratelli; io posso continuare a costruire da questo punto dove essi dovettero cessare; io posso portare più vicino al compimento quel tempio magnifico che essi dovettero lasciare incompiuto». È il medesimo concetto, che pure Foscolo scorge con molta chiarezza, dell’opera che rimane incompiuta dal singolo individuo e viene proseguita dalle generazioni.

«Ma anch’io dovrò cessare dall’opera mia come loro, potrà obbiettarsi qualcuno. Oh, è questo il pensiero più sublime di tutti. Se io assumo su di me quel compito nobilissimo, non potrò mai giungerne al termine; e quanto è certo che è mia missione l’assumerlo, è anche certo che io non potrò mai cessare di operare e quindi non potrò mai cessare di essere. Quello che si suol chiamare morte, non può troncare l’opera mia, perché la mia opera deve essere compiuta, e non può essere compiuta in nessun momento del tempo, perciò alla mia esistenza non è fissato nessun termine nel tempo ed io sono eterno. Col fatto stesso di assumere quel compito sommo, io ho conquistato per me l’eternità. Io sollevo fieramente il mio capo verso le rocce minacciose, verso le cascate furibonde, verso le nubi che si schiantano ondeggiando in un oceano di fuoco e dico: io sono eterno e sfido il vostro potere! Precipitate tutti su di me, e tu cielo, tu terra, mescolatevi in un selvaggio tumulto, e voi tutti elementi, spumeggiate e infuriate, stritolate nella lotta selvaggia sin l’ultimo atomo di quel corpo che io dico mio: la mia volontà sola, col suo sacro proposito, continuerà a librarsi con impavida audacia sulle rovine dell’universo, poiché io ho assunto la mia missione e questa è più duratura di voi, essa è eterna ed io sono eterno con essa». Questo brano costituisce una sorta di manifesto del titanismo romantico. Conto di iniziare la prossima lezione leggendo una poesia di Goethe che presenta la prospettiva titanica, e vorrei avviarmi alla conclusione dopo aver stabilito questo collegamento con la prossima lezione.

Desidero soltanto accennare a un’altra opera, minore, di Fichte, cioè Lo Stato commerciale chiuso: Fichte è stato anche un grande filosofo della politica, è stato il primo che ha iniziato a superare veramente la visione liberale dello Stato. In un primo momento Fichte sostiene, come già aveva sostenuto Kant, che lo Stato ha soltanto il compito di impedire che una persona prevarichi e invada la sfera di libertà di un’altra, quindi lo Stato è una specie di arbitro (secondo la concezione dello Stato liberale), che deve semplicemente tutelare le sfere di libertà degli individui. Nella fase matura invece Fichte apre la strada alla grande concezione hegeliana dello Stato, con un’intuizione singolare, ma molto importante. Proprio partendo dal fatto che l’uomo è portatore di diritti, Fichte si sofferma sul diritto di proprietà e dice che la proprietà è ammissibile soltanto se viene conseguita in base al lavoro. È vero che il diritto all’esistenza, il diritto alla proprietà, sono diritti inalienabili, fondamentali per l’uomo, però l’uomo si mantiene in vita, e mantiene una proprietà quale gli serve per sopravvivere, solamente in base al lavoro. Lo Stato ha un compito fondamentale, cioè quello di garantire la dignità del lavoro a tutti i suoi cittadini. Fichte so-stiene che, per conseguire questo scopo, lo Stato deve accentrare tutti i mezzi della produzione, e deve chiudersi rispetto agli altri Stati, per poter mettere in moto tutte le proprie forze, tutte le proprie energie produttive. Con questo Fichte inizia a delineare uno Stato che non è semplicemente il garante giuridico delle libertà, ma che deve fortemente agire nell’economia, e soprattutto deve garantire non solo formalmente la libertà dei cittadini, ma la deve garantire sostanzialmente a partire proprio dalla dignità del lavoro per ogni cittadino. Credo che, in questo, Fichte sia un precursore delle concezioni statali di Hegel e di certi aspetti dello stesso marxismo, della filosofia del socialismo successiva. Si tratta veramente di un pensatore di grandissima dimensione teoretica, di grandissima dimensione morale.

Fichte   |    Schelling   |   Hegel

Idealismo Tedesco

Idealismo Tedesco

Kant compie una svolta radicale rispetto al pensiero precedente con la sua famosa “rivoluzione copernicana”. Nel momento, in cui la storia si innalza su un’onda che permette di vedere approdi più lontani, i grandi filosofi, soprattutto tedeschi, da Kant ad Hegel, riescono a scorgere possibilità decisive di liberazione e di progresso dell’umanità. Assistiamo, già a partire da Fichte, alla nascita della cultura romantica tedesca. Di solito erroneamente i filosofi dell’idealismo tedesco, Fichte, Schelling ed Hegel, non vengono inclusi all’interno del grande movimento culturale, del grande momento di civiltà del Romanticismo.La filosofia idealistica non è qualche cosa di estraneo rispetto alla cultura romantica, ma anzi ne è un momento decisivo.

Fichte   |    Schelling   |   Hegel

La grande guerra

di Roberto Sidoli, dell’Associazione Primo Ottobre di amicizia Italia-Cina

Il primo conflitto planetario imperialistico non scoppiò nel luglio/agosto del 1914 per errore umano o pura casualità: come ha giustamente notato David Stevenson nel suo libro “La grande guerra” (p. 43), la tesi della guerra per errore “è oggi insostenibile” anche solo tenendo a mente la distanza temporale di più di un mese creatasi nel 1914 tra il celebre attentato di Sarajevo e lo scoppio effettivo delle ostilità sul suolo europeo. Non fu certo una guerra divampata a “caldo”… Inoltre la prima guerra mondiale non si sviluppò certo per assenza o scarsità di processi di globalizzazione, di compenetrazione economica tra le nazioni in conflitto, anzi. Sempre Stevenson, lontano anni-luce da qualunque simpatia comunista e marxista, ha sottolineato un punto fermo ormai assodato dalla storiografia contemporanea notando che “gli anni che precedettero il 1914 conobbero livelli di interdipendenza economica che non si ripeterono più fino a ben oltre la seconda guerra mondiale” e al 1960, visto che proprio nel 1913 le esportazioni/importazioni valevano e pesavano per circa un quarto del prodotto nazionale lordo tedesco, britannico e francese di quel tempo (Stevenson, op. cit., pp. 40-41).

La guerra del 1914-18 invece scoppiò principalmente per lo scontro mortale in atto da tempo tra due gruppi imperialisti contrapposti, quello anglofrancese (e russo) e l’alleanza tedesco-austriaca, a causa del loro conflitto antagonista per il dominio politico-economico, per il controllo dei mercati, delle sfere d’influenza e delle fonti di energia/materie prime su scala europea e mondiale, risultando – come notò giustamente Lenin – una battaglia senza limiti per decidere quale delle due “bande di briganti” dovesse egemonizzare il mondo, il blocco anglofrancese o viceversa quello tedesco. Grazie anche all’eccellente studio effettuato nel 1993 da Paul Kennedy rispetto all’antagonismo anglo-tedesco nel Ventesimo secolo, persino alcuni storici anticomunisti negli ultimi decenni hanno in parte dovuto prendere atto della validità dell’analisi leninista rispetto alle cause fondamentali del primo macello planetario, focalizzando a modo loro l’attenzione sulla “weltpolitik” condotta tra il 1890 e il 1914 dai circoli dirigenti dell’imperialismo tedesco, con l’imperatore Guglielmo II in testa, in qualità di mandatario politico della frazione politica egemone in quel periodo storico all’interno della borghesia e dell’apparato statale della Germania. Ad esempio Stevenson, sulla scia di Paul Kennedy, ha posto l’accento sul piano strategico via via elaborato dall’imperialismo tedesco dal 1890 al 1914 e teso a ottenere progressivamente l’egemonia planetaria, focalizzando l’attenzione sulla “nuova iniziativa intrapresa a partire dagli ultimi anni Novanta del XIX secolo, conosciuta come politica mondiale o weltpolitik. La sicurezza continentale ora non bastava più, e Guglielmo II e i suoi consiglieri affermavano con ostentazione il diritto della Germania ad avere voce in capitolo nell’impero ottomano (dove dichiarò di essere il protettore dei musulmani), in Cina (dove la Germania acquisì un diritto sul porto di Tsingtao, nella baia di Chiao Chou) e in Sud Africa (dove Guglielmo II sostenne gli afrikaner contro i tentativi britannici di controllarli, inviando nel 1896 un telegramma di sostegno a Paul Kruger, presidente del Transvaal). La manifestazione più concreta di weltpolitik furono però le leggi navali del 1898 e 1900. Con l’approvazione del Reichstag, il ministro della Marina di Guglielmo II, Alfred von Tirpitz, iniziò la costruzione di una nuova flotta di corazzate studiate per operazioni nel Mare del Nord”. (D. Stevenson, op. cit., p. 56)

Nel 1890-1914, l’imperialismo inglese risultava da tempo come la principale potenza imperialistica su scala mondiale, a capo di una rete planetaria capillare di oppressione politica e di sfruttamento economico-finanziario che estendeva la sua sinistra tela dal Canada alla Cina e a Hong Kong, passando per buona parte dell’America Latina, dell’Africa e per il controllo dell’intero subcontinente indiano, attuali Pakistan e Sri Lanka inclusi; la weltpolitik inglese, altrettanto feroce e spietata di quella tedesca, nel periodo precedente all’estate del 1914 aveva l’obiettivo strategico di difendere a qualunque costo l’egemonia coloniale e neocoloniale (ad esempio nei confronti del Portogallo e dell’Argentina di quel tempo) britannica contro quello che dal 1898-1900 risultava ormai il suo nemico principale, l’aggressivo e sempre più potente imperialismo tedesco, anche a costo di allearsi a tal fine con un precedente e scomodo “nemico storico” dell’Inghilterra, e cioè quella Russia zarista con cui Londra aveva avviato in precedenza una sotterranea ma sanguinosa lotta (il “Great Game”) per l’egemonia sull’Asia centrale, dal 1835 al 1905.

Lo scontro internazionale, divenuto mortale e irreversibile dal 1907 in poi, tra la weltpolitik tedesca e quella speculare dell’imperialismo britannico risulta la chiave di lettura decisiva delle origini e cause principali della prima guerra mondiale: un’asse e una matrice fondamentale a cui, dal 1898 in poi, si aggiunsero e aggregarono via via anche gli altri conflitti e contraddizioni interimperialistiche, a partire da quelle esistenti tra Francia e Germania per il controllo dell’Europa occidentale (Belgio e Alsazia – Lorena in testa) e tra Russia e Austria, per l’egemonia politica-economica nei Balcani.

Anche lo storico anticomunista N. Ferguson, nel suo libro intitolato “La verità taciuta”, ha riconosciuto in parte tale “fatto testardo” ammettendo le pesanti responsabilità – spesso sottaciute, se non negate del tutto – dell’imperialismo britannico nello e per lo scoppio della prima guerra mondiale.

Andando controcorrente rispetto al trend principale della storiografia occidentale, Ferguson ha notato ad esempio che era scorretta, e in gran parte falsa, la tesi ufficiale dell’imperialismo britannico per cui i suoi circoli dirigenti – allora il governo inglese risultava di matrice liberale ed era guidato da Herbert Asquith, con al suo interno forti personalità quali Winston Churchill (ministro della marina militare britannica) e lord Grey, l’astuto ministro degli esteri di quel tempo – nei fatidici giorni compresi tra il 23 luglio e il 4 agosto del 1914 scelsero di entrare in guerra per difendere il “povero” Belgio, invaso dalla potenza militare tedesca a dispetto della sua neutralità di facciata.

Invece Ferguson dimostrò, in base alle stesse dichiarazioni di Churchill e Grey, come la posta in palio per l’imperialismo britannico risultasse assai diversa e di ben altro spessore, e cioè che a loro avviso la Gran Bretagna “non potesse, per la nostra stessa salvezza e indipendenza, permettere che la Francia fosse sconfitta come risultato di un atto di aggressione da parte della Germania”. Secondo Churchill un tiranno continentale mirava al dominio del mondo. Nelle sue memorie Grey abbracciava le due tesi. «Il nostro ingresso in guerra immediato e compatto», ricordava, «era dovuto all’invasione del Belgio». Ma la mia sensazione istintiva era che dovessimo accorrere in aiuto della Francia. Se la Gran Bretagna fosse rimasta in disparte, allora la Germania avrebbe dominato su tutta l’Europa e l’Asia minore, perché i turchi si sarebbero schierati con la Germania vittoriosa. Stare in disparte avrebbe significato il dominio della Germania, la sottomissione della Francia e della Russia, l’isolamento della Gran Bretagna, l’odio per lei sia da parte di chi ne aveva temuto l’intervento sia da parte di chi lo aveva desiderato e in ultima analisi che la Germania avrebbe avuto mano libera sul continente. Secondo K. M. Wilson questo argomento egoistico era più importante del destino del Belgio, che era enfatizzato dal governo principalmente per placare gli scrupoli di ministri di gabinetto tentennanti e per tenere l’opposizione al suo posto. Più di ogni altra cosa la guerra fu combattuta perché era nell’interesse della Gran Bretagna difendere la Francia e la Russia e impedire il consolidamento dell’Europa sotto un unico regime potenzialmente ostile”. (Ferguson, “La verità taciuta”, p. 34)

La posta in palio, come aveva notato giustamente Lenin dal suo esilio in Svizzera, paese in cui il geniale rivoluzionario russo era arrivato nell’agosto del 1914 e poco dopo lo scoppio delle ostilità, risultava pertanto l’egemonia politica ed economica su scala europea e mondiale: in una polemica del 1916 con il bolscevico Juri Pjatakov, Lenin annotò con esplicita approvazione “un eccellente definizione” (sue parole testuali) elaborata da Karl Kautsky poco prima dello scoppio della guerra, indicante che “in una guerra tra Germania e Inghilterra la questione non è la democrazia, ma il dominio mondiale, lo sfruttamento del mondo” (V.I. Lenin “Intorno a una caricatura del marxismo e all’economicismo imperialista”). Sempre evidenziando la responsabilità dell’imperialismo britannico nel lungo processo politico, militare ed economico che dal 1898 al 1914 portò all’avvio del primo conflitto mondiale, Ferguson ha sottolineato altresì come a partire dal 1905 la politica estera britannica ebbe come suo fulcro l’individuazione (corretta) dell’imperialismo tedesco come nemico principale su scala mondiale, da indebolire a ogni costo e anche alleandosi con quella Russia zarista con cui Londra si era scontrata, direttamente o indirettamente, per almeno un secolo in Europa e in Asia centrale: anche alleandosi con un nemico storico della Gran Bretagna, come ammise apertamente fin dal 1906 il sopracitato lord Grey, ministero degli esteri inglese dal 1905 al 1916.

Rispetto a tale direttiva strategica di Grey e dell’imperialismo britannico, di cui il ministro degli esteri del tempo costituiva un fedele mandatario politico, Ferguson ha sottolineato come “la diminuzione della potenza russa in seguito alla sconfitta con il Giappone e alla rivoluzione del 1905 gli rese le cose facili. In queste circostanze poté contare sull’appoggio dell’opposizione per i tagli alle spese per la difesa dell’India e in tal modo sbarazzarsi di quelli che, al Ministero della Guerra e al governo dell’India, continuavano a pensare che la Russia fosse la vera minaccia alla frontiera nord-occidentale. Trovò anche un appoggio (e assai qualificato) nel colonnello William Robertson del Dipartimento di informazione del Ministero della Guerra, che si batté contro l’aumento degli impegni militari della Gran Bretagna in Persia o al confine afghano quando la Germania era la minaccia militare più seria”. Con notevole lucidità proprio Roberston notò che “per secoli in passato ci siamo opposti a tutte le potenze che a turno avevano aspirato alla supremazia continentale; e nel contempo, e come conseguenza, abbiamo ravvivato la nostra sfera di supremazia imperiale. Un nuovo predominio sta ora crescendo, il cui centro di gravità è Berlino. Qualunque cosa ci aiuti a opporci a questo pericolo nuovo e formidabile sarebbe di inestimabile valore per noi”. Questo offrì a Grey l’occasione di attuare profondi mutamenti nella politica estera inglese.

Gli accordi immediati conclusi (tra la Russia e la Gran Bretagna) il 31 agosto 1907 riguardavano il Tibet e la Persia. Il primo divenne uno stato cuscinetto; l’altra fu divisa in sfere di influenza, il nord alla Russia, il centro neutrale e il sud-est alla Gran Bretagna. Con le parole di Eyre Crowe, la finzione di una Persia unita e indipendente doveva essere sacrificata pur di evitare qualsiasi lite con la Russia. Per secoli in passato – per usare l’espressione di Robertson – la Gran Bretagna aveva anche cercato di opporsi all’estensione russa nei Dardanelli e anche in Persia e in Afghanistan. Ora, per il bene dei buoni rapporti con la Russia, tutto questo poteva essere abbandonato. Se le questioni asiatiche si sistemano favorevolmente, disse Grey al sottosegretario di Stato Sir Arthur Nicholson, i russi non avranno guai con noi riguardo all’ingresso del Mar Nero. La vecchia politica di chiuderle in faccia gli Stretti e rinfacciarle il suo peso a ogni conferenza delle potenze sarebbe stata abbandonata, anche se Grey rifiutò di dire con precisione quando.

Allo scopo di rafforzare il ruolo della Russia di contrappeso alla Germania su terra, Grey arrivò persino a manifestare segni di incoraggiamento alle tradizionali ambizioni russe nei Balcani”. (Ferguson, op. cit., pp. 111-112).“Supremazia imperiale”; accordi russo-inglesi per la spartizione dell’Iran e del Tibet; individuazione da parte di Londra del “nuovo predominio” imperiale che “sta crescendo a Berlino” e l’asserita necessità, per l’imperialismo britannico, di “opporsi a questo pericolo nuovo e formidabile”: sembra quasi che il geniale marxista Lenin avesse avuto superpoteri tali da permettergli di conoscere in segreto le reali motivazioni strategiche degli imperialismi britannico e tedesco tra il 1898 e il 1914, quando egli iniziò a elaborare compiutamente in terra svizzera la sua analisi dell’imperialismo.

Lenin comprese infatti alla perfezione come la guerra del 1914 fosse la prosecuzione della politica con altri mezzi, con mezzi violenti (Clausewitz), e che la politica condotta dai nuclei dirigenti politici delle diverse potenze – ivi compresi gli Stati Uniti e il Giappone – dopo il 1870 e fino al 1914 fosse una politica imperialistica e “l’espressione concentrata” di precisi interessi economici della borghesia e del capitale finanziario: una tesi innegabile che è stata confermata in seguito da un secolo di altre esperienze concrete, di invasioni e occupazioni imperialistiche, di guerre più o meno sotterranee tra le grandi potenze e, non certo ultimo fattore per importanza, dal secondo conflitto mondiale.

A questo punto si può ormai passare a individuare alcune tesi e punti fermi, importanti ma di regola poco noti, del processo di analisi sull’imperialismo effettuata da Lenin.

Non mi riferisco alla sua ormai classica definizione dell’imperialismo, intesa correttamente come “stadio monopolistico del capitalismo” con i suoi “cinque principali contrassegni” e cioè:

“La concentrazione della produzione del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli (trust, multinazionali, ecc…) con funzione decisiva nella vita economica;

La fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario” di un’oligarchia finanziaria (credo che qui in Svizzera, ma non certo solo da voi, tale definizione leninista risulti ormai particolarmente chiara e veritiera…);

La grande importanza acquisita dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;

Il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali, che si ripartiscono il mondo (le multinazionali, gli istituti finanziari e le compagnie di assicurazione che operano su scala mondiale, ecc.);

La compiuta ripartizione della terra, di tutto il nostro pianeta, “tra le più grandi potenze capitalistiche” (V. I. Lenin, “Imperialismo, fase suprema del capitalismo” (cap. VII).

Dal 1914-16 fino ad oggi, un secolo intero ha mostrato la validità e l’esattezza del processo di definizione leninista rispetto all’imperialismo. Mi soffermerò pertanto su altri “anelli” e “reti” teoriche di Lenin, a partire dall’individuazione geniale da parte sua della tendenza generale allo sviluppo diseguale all’interno delle potenze capitalistiche: un tema che buona parte della sinistra “antagonista” preferisce non affrontare perché troppo legata alle tesi leniniste (non di Stalin, anche se riprese con determinazione dal leader comunista georgiano) sulla possibilità di una rivoluzione socialista in un solo paese e – a determinate condizioni – della possibile costruzione del socialismo anche in un solo paese. Lenin notò acutamente, nel suo “Imperialismo” del 1916, che la praxis concreta del 1870-1916 mostrava chiaramente come le diverse potenze imperialistiche si sviluppassero sul piano economico (e militare, militar-tecnologico, di conseguenza) con ritmi e tassi di sviluppo assai diversi, acquisendo saggi di incremento del loro potenziale globale economico (e militar-tecnologico) molto differenti tra loro: un’asimmetria profonda che non solo costituiva una realtà innegabile sul piano mondiale ma, anche e simultaneamente, una sorta di profonda “faglia tettonica”, che preparava in modo cumulativo e continuo dei veri e propri “terremoti” e dei salti di qualità rispetto al concreto rapporto di forze e alla correlazione di potenza concreta tra le diverse potenze imperialistiche, facendo in modo che alcune di esse risultassero in declino relativo rispetto ad altre, invece collocatesi via via in una posizione politicamente vantaggiosa di ascesa relativa rispetto alle prime.

Tale era il caso concreto della Germania, in ascesa rispetto alla declinante potenza mondiale “numero uno” britannica nel periodo compreso tra il 1870 e il 1914: uno studioso anticomunista come Stevenson ha ammesso ad esempio che se in termini di produzione di acciaio la Germania nel 1870 fabbricava solo la metà dell’output britannico in tale settore strategico, già nel 1913 il rapporto di forza ormai risultava rovesciato a favore dei tedeschi, con una produzione doppia rispetto a quella dell’imperialismo inglese.

La legge dello sviluppo diseguale nel 1870-1914 ridisegnò via via i rapporti di forza globali tra le diverse potenze imperialistiche, provocando nel medio e lungo periodo sia una trasformazione delle loro strategie generali e delle loro aspettative, ambizioni e appetiti politico-economici che una crescita parallela delle tensioni e degli scontri al loro interno, in una prima fase sotto forma “molecolare” (Gramsci) e in seguito attraverso un processo articolato che culminava in salti di qualità e fasi di “scoppio” esplosivo: le guerre imperialistiche, pertanto, costituiscono a loro volta uno dei sottoprodotti anche della legge dello sviluppo diseguale, assieme a quella concorrenza e conflittualità “normale” (Marx, Manifesto del Partito Comunista) esistente costantemente nei rapporti tra le diverse potenze borghesi, fin dai lontani tempi degli scontri tra le protocapitalistiche città marinare di Genova, Pisa e Venezia nel 1200/1400.. Sarebbe altresì utile  un’analisi specifica rispetto a tale tematica, come del resto sulla tesi del 1915 di Lenin (“Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”) per cui “l’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo e risulta che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente”. Sarebbe altresì utile lo studio dell’applicazione da parte di Lenin della teoria dello sviluppo diseguale anche al movimento operaio, con lo spostamento progressivo del centro di gravità rivoluzionario da occidente verso oriente: dall’Inghilterra del cartismo (1830-1846) alla Francia del 1848-1871, fino al periodo in cui dopo il 1871 ( “La terza Internazionale e il suo posto nella storia”) il movimento operaio tedesco conquistò per quattro decenni l’egemonia nel movimento operaio internazionale, quando ancora la Germania risultava assai indietro rispetto all’Inghilterra e alla Francia dal punto di vista dello sviluppo capitalistico, fino al nuovo “passaggio di testimone” rivoluzionario dalla Germania alla Russia nel 1905-1917, quando” (e per un lungo periodo…) “l’egemonia nell’Internazionale rivoluzionaria proletaria” passò alla “Russia arretrata” sul piano economico, come sottolineò Lenin nel 1919.

Strettamente collegata alla tendenza e allo sviluppo diseguale, un’altra stimolante categoria e “rete” di interpretazione leninista del processo di sviluppo/decadenza contraddittoria dell’imperialismo, con la sua continua dinamica di competizione globale (tendenza che si confronta costantemente con la controtendenza dell’interdipendenza economica tra le diverse potenze mondiali) risulta la tendenza alla distribuzione diseguale: e cioè l’asimmetria esistente nel processo di acquisizione dei “territori” e delle sfere di influenza specifiche da parte delle diverse potenze imperialistiche, in base a diseguali e mutevoli rapporti di forza.

Come notò giustamente Lenin, il processo su scala planetaria di acquisizione brigantesca e predatoria delle sfere di influenza dal 1870 si verifica sempre in base ai rapporti di forza economici e militari, diseguali e asimmetrici, creatisi via via tra le diverse potenze mondiali; correlazioni di potenza che tra l’altro via via si modificano continuamente, in base alla legge dello sviluppo diseguale sopra esaminata. Rileggiamoci il grande rivoluzionario russo quando, nel capitolo VI del suo Imperialismo, egli vide chiaramente come “tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo la spartizione del mondo fosse ormai totale. I possedimenti coloniali crebbero a dismisura dopo il 1876. Nel 1876 tre Stati non avevano alcuna colonia, e un altro, la Francia, quasi nessuna. Nel 1914 quasi quattro paesi possedevano colonie per 14,1 milioni di chilometri quadrati, cioè circa una volta e mezza l’Europa, con una popolazione di circa 100 milioni di uomini. Pertanto l’ineguaglianza dell’estensione dei possedimenti coloniali è molto grande. Se si confrontano, per esempio, la Francia, la Germania e il Giappone, che non differiscono molto per superficie e popolazione, risulta che la Francia ha acquistato come superficie quasi tre volte più di colonie che la Germania e il Giappone presi insieme. Ma la Francia all’inizio del detto periodo era assai più ricca di capitale finanziario che non, forse, la Germania e il Giappone presi insieme. Oltre alle condizioni economiche, e in base a queste, influiscono sulla grandezza del possesso coloniale anche le condizioni geografiche, ed altre Tra i sei paesi summenzionati troviamo dei giovani paesi capitalisti in rapidissimo progresso, come l’America, la Germania e il Giappone; la Russia, il più arretrato nei riguardi economici, dove il più recente capitalismo imperialista è, per così dire, avviluppato da una fitta rete di rapporti precapitalistici”.

Nel IX capitolo dell’“Imperialismo” Lenin elaborò le conclusioni – corrette e inevitabili – di tale analisi notando che “in regime capitalistico non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere di interesse e di influenza, delle colonie, ecc. che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare, ecc. Ma i rapporti di forza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc. Mezzo secolo fa” (nel 1866) “la Germania avrebbe fatto pietà, se si fosse confrontata la sua potenza capitalistica con quella dell’Inghilterra d’allora: e così il Giappone rispetto alla Russia. Si può immaginare che i rapporti di forza tra le potenze imperialistiche rimangano immutati? Assolutamente no”. In questo campo specifico, e cioè nel mutevole e contraddittorio processo di distribuzione del “bottino” e delle sfere d’influenza tra i “predatori” e i diversi briganti imperialistici, vige costantemente la dura legge dei rapporti di forza politico-militari, economico-tecnologici e finanziari, con la derivata “legge di Brenno” e il suo esplicito “guai ai vinti”: giustamente Lenin sottolineò, anche nel suo scritto “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, che “in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza”, aggiungendo subito che “per mettere alla prova la forza reale di un paese capitalistico, non c’è e non può esservi altro mezzo che la guerra”.

Sarebbe interessante nel prossimo futuro, sviluppare un’analisi comparata tra la situazione esistente nel mondo attorno al 1914 e quella attuale, utilizzando in modo creativo e non dogmatico gli splendidi criteri di analisi leninista rispetto a tematiche ancora sconosciute al grande rivoluzionario russo, quali ad esempio:

il processo di creazione su vasta scala, dopo l’agosto del 1945, di tremende armi di distruzione di massa (atomiche, chimiche e batteriologiche);

la diffusione multipolare delle armi nucleari e lo “stallo atomico” che ne è derivato, a partire dal 1945-57 e fino ai nostri giorni;

il tentativo statunitense di superare a proprio vantaggio egemonico tale particolare “stallo atomico” e la mutua distruzione assicurata (MAD) attraverso la corsa al riarmo nello spazio e le guerre stellari di Reagan, Clinton e Obama;

il declino relativo – a tratti assoluto – dell’imperialismo statunitense dal 1965 fino ai nostri giorni;

l’emergere nel 2010 di una nuova potenza “numero 1” a livello economico nel nostro pianeta, e cioè la Cina (prevalentemente) socialista, come ammesso persino da un rapporto della Banca Mondiale dell’aprile 2014;

la strategia cinese tesa ad evitare che il veloce declino e il probabile/prossimo collasso del capitalismo statunitense trascini di nuovo il mondo in un terzo e apocalittico scenario bellico-atomico, nell’”ipotesi Armageddon”;

la “controstrategia del caos” elaborata e attuata dagli attuali dirigenti politici statunitensi, tesa a creare il disordine generalizzato e a innescare con mezzi proteiformi dalle spirali, crescenti di tensione in alcune aree strategiche del globo: Siria e Iraq (con i terroristi dell’ISIS armati e foraggiati per anni dagli USA), Venezuela, Argentina (i “fondi avvoltoio” made in USA), Ucraina e l’appoggio statunitense ai nazisti della zona, isole di Diaoyu poste al confine tra la Cina e il Giappone, Hong Kong nell’autunno del 2014, ecc.;

la “guerra informatica” condotta su scala planetaria (Echelon, caso Snowden) dall’imperialismo statunitense e dai suoi alleati contro le potenze non-anglosassoni, in particolar modo la Cina;

il continuo spionaggio aereo effettuato dagli USA ai confini marittimi della Cina, provocando ad arte seri problemi con Pechino (come nel 2001 e nell’agosto del 2004).

C’è spazio per un dibattito ampio e per una profonda riflessione tra i marxisti. Voglio però subito sottolineare il dato politico centrale per il genere umano e i lavoratori di tutto il mondo, e cioè che attualmente – come nel 1913 e nei primi mesi del 1914 – il pericolo di una guerra mondiale risulta purtroppo tutt’altro che escluso, a causa fondamentalmente dell’imperialismo statunitense e dell’attuale disastrosa weltpolitik di Washington.

Dobbiamo alzare subito, e di molto, il livello di guardia e non creare illusioni tra le masse.

Forse molti compagni sono a conoscenza che nel 1914 lo studioso Norman Angell arrivò fino al punto di sostenere, in buona fede, che una guerra mondiale non risultava possibile a causa delle fitte relazioni economiche esistenti tra le diverse potenze mondiali e delle disastrose conseguenze di un eventuale conflitto bellico su vasta scala: il tutto solo pochi mesi prima dell’agosto del 1914, nel suo libro intitolato In modo involontariamente ironico “La grande illusione”. Si tratta di una “grande illusione” e di una tesi che è stata ripresa molto meno in buona fede seppur con un identico fallimento teorico, da Thomas L. Friedman nel 1999 con la sua teoria “del McDonald’s antiguerra”, tesa ad addormentare le coscienze dei lavoratori.

Secondo Friedman, infatti, non risultava possibile una guerra fra nazioni al cui interno operassero dei punti di vendita McDonald’s: dopo soli pochi mesi, tuttavia, gli USA patria dei McDonald’s bombardarono a tappeto con i suoi alleati – Italia in testa – la Jugoslavia, proprio mentre a Belgrado potevano essere acquistati e venduti da alcuni anni i prodotti della sopracitata multinazionale statunitense.

Era solo fumo negli occhi e una forma di inganno contro la volontà di pace dei popoli. Tutto questo ciarpame – come del resto le tesi sulla presunta “fine della storia”, elaborate nel 1992 da Fukujama – si è dimostrato in breve tempo solo una forma illusoria di spazzatura ideologica e culturale, ma in ogni caso bisogna sviluppare tra i giovani e i lavoratori la coscienza collettiva della gravità oggettiva dell’attuale situazione politica planetaria, contraddistinta da un sinistro disegno globale statunitense che rischia di provocare fin da subito almeno una terza guerra mondiale “spezzettata”, secondo il giudizio parziale ma interessante espresso nell’agosto del 2014 dal leader indiscusso del Vaticano.

Siamo ancora in tempo per fermare tale opzione e la deriva bellico-nucleare, soprattutto grazie al contropotere globale ormai esercitato su scala globale dai paesi Brics, con in testa la Cina popolare, ma a tal fine serve anche un nuovo livello di sviluppo della mobilitazione delle masse popolari e della classe operaia dell’Europa, possibile e utilissima ma anche se non scontata: bisogna lottare assieme e su scala europea contro i focolai di guerra e contro la dissennata corsa al riarmo di marca statunitense, accettata anche dalla borghesia europea italiana, come nel caso dei costosissimi F-35.

Come ha notato D. Stevenson rispetto al tragico 1914 e al periodo storico che preparò il primo macello mondiale, “un ciclo di preparativi militari in perenne aumento” (ripeto: un ciclo di preparativi militari in perenne aumento) “fu un elemento essenziale della congiuntura che condusse al disastro. La corsa agli armamenti era un prerequisito necessario dello scoppio delle ostilità”.

A mio avviso la lotta su scala internazionale contro le spese militari e i nuovi armamenti, a partire da F-35 e “guerre stellari”, assieme alla battaglia per spegnere i principali focolai di guerra costituiscono i due primi “anelli” della catena che devono afferrare i comunisti europei per contribuire a scongiurare il reale, concreto pericolo di guerra generalizzata che grava tuttora sul genere umano.

La finestra di Borges

di  Questo racconto  fa parte dell’antologia Panamericana, in uscita in questi giorni per La Nuova Frontiera, che ringraziamo.

– Babbo!
(De Quincey)

Essendo mio padre un ingegnere della tipologia antica, di quelli che si pensavano anzitutto come intellettuali e vedevano l’ingegneria come un complemento delle discipline umanistiche, e dunque, di fatto, una disciplina umanistica a sua volta, in casa, da sempre, vi erano più testi letterari che scientifici1.

Essendo tuttavia, e comunque, un ingegnere, egli poneva al vertice della piramide quella letteratura la quale, piuttosto che indagare il cuore e l’anima dell’uomo, cercava di circoscrivere a formula, o almeno a proiezione, quelli del mondo. La risoluzione di misteri, l’avventura a chiave, la combinatoria, il gioco letterario, il postmodernismo di marca europea, erano le sue passioni; da ingegnere, tali passioni catalogava in implicite scale di necessità e interazione, dove la chiarezza non aveva importanza minore della volontà di scendere nei recessi dell’ignoto.

Se le pendici dell’Olimpo pullulavano di personaggi tanto variegati quanto potevano esserlo Arthur Conan Doyle e Hofstadter, Cipolla e Edwin Abbott, Bartezzaghi e Stevenson e Oreste del Buono (nel fumetto, pur fedele ai dettami di quest’ultimo, apprezzava Moebius ma diffidava del suo compare Jodorowsky), il pyramidion era composto da tre nomi. In basso, guardiani della soglia, sfingi portanti e veridiche incarnazioni dei ‘‘gradi blu’’ di quell’ordine iniziatico che includeva lui solo e che, intesi già nella prima infanzia, avrebbe potuto includere me, c’erano due italiani, noti fino all’ovvio, ampiamente stimati, addirittura rassicuranti: Umberto Eco e Italo Calvino. Sopra di loro, coi piedi ben piantati sulle loro capocce a mo’ di Colosso, un argentino. Si trattava naturalmente di Jorge Luis Borges.

Si dice che il compito dei figli sia uccidere i padri, o almeno superarli, o almeno credere di averlo fatto2. Nel mio caso, visto che avrei scelto la strada delle lettere e non quella delle scienze applicate, l’onere era più lieve di quello toccato ad altri: a colpi granitici di Kafka, Joyce, Proust, Faulkner, Pynchon, era fin banale smontare le mura di gesso di Calvino, quelle di mattoni di Eco. Per giocare a detestare il primo, poi, bastava leggere le sue lettere editoriali, il Marcovaldo, prcalvino-e-j-l-borgesendere le misure della limitatezza del gioco di Se una notte d’inverno rispetto a quanto si faceva, e anni prima, in America… Per il secondo, bastava ricollocarlo nell’attuale, nell’attualità, che tutto svilisce e rende prosaico. Una firma al pur encomiabile appello contro un primo ministro corrotto, una ‘‘Bustina’’ meno riuscita, e già Eco poteva scomparire nel mucchio dei personaggi da quotidiano, da settimanale.

Tutto questo, però, con Borges non era possibile. Spunti per detestarlo ve ne erano di grandiosi: l’appoggio tacito al boia Videla, sia pure per via di un incancrenito antiperonismo; l’appoggio manifesto all’altro boia Pinochet, la frase ignobile sulla ‘‘chiarezza della spada’’ rispetto alla ‘‘illegalità della dinamite’’, detta mentre i suoi aguzzini bruciavano capezzoli, strappavano unghie, elettrificavano gengive e ferite aperte, ficcavano topi nelle vagine delle oppositrici; le parole, forse ancora più ignobili, con cui cercò di giustificarsi, messo di fronte ai crimini di quei regimi: non sapevo… Non immaginavo… Sono vecchio… ‘‘pensate a me come un cieco che non legge i giornali e che conosce poca gente…’’
Parole degne di un Priebke: vecchio cieco? Sei uno dei massimi scrittori del Novecento, brutto figlio di puttana!

Pure, non funzionava. Non v’era ignominia nel mondo reale che potesse scalfire l’edificio criselefantino del suo magistero. Immaginario, eppure più vero del vero: lo si poteva ben dire.
Il fatto era che tutta la fiducia che avevo nei libri, e dunque nel mondo, veniva da lui. Avrebbe potuto dirmi, giunto che fossi al suo cospetto, Io ti ho creato, come un Thulsa Doom al primo barbaro che ne sfida il potere. Non avrei saputo cosa rispondere e mi avrebbe scacciato, fattosi Crom, o Wotan moltiplicato dalla doppia cecità, dal Valhalla, ridendo di me.

Bimbo precoce, avevo letto Il nome della rosa e il Diario minimo, Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili3, apprezzandoli più dei libri destinati ai ragazzini della mia età, così mio padre pensò di iniziarmi. Lo fece, naturalmente, con La biblioteca di Babele. Seppi solo da adulto che era parte organica di una raccolta. Mi venne presentata come cosa a sé. Presi a leggere. Lo sguardo di mio padre, immagino, andava oltre quello ironico e compiaciuto che si scambiano i Maestri mentre il novizio è nel gabinetto di riflessione, alle prese col gallo nero, prima di giungere al sole e alla luna. Era quello di un altro custode di sole e luna, quello del vecchio freak che somministra un Super Hofmann, intero, certo, perché no, al giovane europeo recato dal fato a incontrarlo nei giardini di Ruigoord4.

E psichedelico fu del resto l’effetto del racconto su di me. Ebbe a scrivere William Gibson che leggere Finzioni fu per lui equivalente all’installazione di nuovo software. A me un solo racconto della medesima raccolta fornì di una nuova scheda madre. Fu forse un rifugio: di fronte alla complessità del mondo, ridurlo a libri, una cosa tangibile, che conoscevo e avrei potuto conoscere ancor meglio, era rassicurante. Non ancora adolescente, ecco già una discreta soluzione al problema dei problemi. Ma ho ragione di credere che vi fosse d’altro, e la realtà (che altri chiama la biblioteca) sarebbe venuta a dimostrarlo.

Non che non abbia provato, in seguito, a uccidere Borges, a lasciarmelo dietro, a sputargli in faccia o almeno credere di averlo fatto. Ricordo (di nuovo il ricordo, la sua incertezza: ma mi si lasci superarla, è del resto per tale illusione che si scrive) che quando conobbi i ragazzi della rivista dove avrei pubblicato le mie prime cose, li schernii chiamandoli figli bastardi di Borges. Era solo, va da sé, che avevano avuto la mia stessa formazione, e ciò filtrava nei loro testi, nella loro estetica; quasi per sfregio passai quasi subito a un ostentato realismo. Una volta, più tardi, avevo già pubblicato due libri e guadagnato un rispetto in quella povera cosa che è il campo letterario da poter parlare senza abbassare troppo gli occhi ai venerati della mia epoca, uno di tali maestri, canuto e segnato dalle sofferenze che gli aveva cagionato il campo medesimo, al mio fare il nome dell’argentino, mi disse ‘‘Borges è un vicolo cieco. Un bellissimo vicolo, ma cieco.’’

Il motteggio mi piacque. Mi parve convincente. Lo feci mio. Sì, superare Borges! Quel vicolo cieco che non è altro! Passare oltre, lasciarsi alle spalle giochetti e orologerie! Guardare ai veri giganti, ai misteri insoluti, insolvibili, o alle verità stabilite dagli antichi, prone alla permutazione solo perché in fin dei conti immuni a ogni corruzione.

Un anno dopo, però, pubblicai ancora un libro, e in exergo mi scoprii a porre Calvino. Le città come i sogni… Calvino! Ancora non avevo superato costui, la sua biciclettina, il suo tavolo nell’ufficio torinese, il suo sorriso furbetto, e volevo prendermela con Borges? Col Venerabile Jorge (quanto sorrideva, mio padre, all’idea di ritrovarlo, per mano di Eco, a fare la parte del cattivo in quel monastero benedettino…)? Pretesa ridicola. Il vicolo, compresi, non era cieco. C’era una parete in fondo, ma si poteva essere sicuri che non avesse finestre?  C’era una tecnica difficile, forse impossibile, da superare; ma da ogni suppellettile, da ogni libro sui suoi scaffali (non serve spiegare che vicolo, in un simile caso, voleva dire anche corridoio di biblioteca), forse anche dalle crepe dei suoi muri, a ben guardare, si dipartivano universi.

Lasciarmi dietro Borges: pretesa tanto più ridicola, rifletto oggi, per chi come me non per una volta (per una volta capita a tutti) ma per due, si era perduto nel labirinto.
Chi crede nel dogma recente della psicanalisi li chiama ‘‘ricordi di copertura’’: certo è che durante l’adolescenza, e ancor più durante la giovinezza, tali e tante sono le suggestioni da cui abbeverarsi, le strade il cui solo potenziale inebria l’anima (salvo poi non sceglierne magari alcuna e stare a cazzeggiare al bar per anni: è anche questo il bello di quell’epoca della vita), i desideri e gl’incontri terreni e gli entusiasmi, che facilmente si stende una cappa sottile ma immediata e scurissima sugli eventi in cui si vacilla o si è vacillato, sospesi in quell’area liminale che divide il non vero dal vero, o meglio il potenziale infinito dall’attuale che si sceglie di vedere.

Solo adesso, solo ora che, trovandomi nell’incombenza di scrivere un racconto su Borges5, ho ripreso in mano tutti i suoi libri, Finzioni, L’Aleph, Il libro di sabbia e tutti gli altri, li ho riletti e chiosati e nuovamente ammirati alla luce delle letture fatte negli anni, tali ricordi sono tornati a manifestarsi.

Il primo6, è ovvio, e mi rendo conto quante volte finora ho usato le parole ‘naturalmente’, ‘ovvio’, ‘ovviamente’, ma sa ormai il lettore in quale territorio, in che tipo di meccanismo matematico ci troviamo, fu una biblioteca. La biblioteca di Montevarchi! Difficile immaginare luogo meno enigmatico; pochi al mondo, i dedali più miserandi. Tre piani più una stanzuccia sotterranea, un bibliotecario grassoccio, non cieco ma solo dotato di spesse occhiaie, sempre con l’aria di conoscerne ogni anfratto (non ebbe del resto mai il problema di dover viaggiare per esagoni ed esagoni, per infinite leghe), e noi pigri lì nella sala studio a scambiarci foglietti con battute sulle ragazze o i tizi ridicoli che ci sedevano intorno… Pure, in quel luogo, come del resto in ogni biblioteca – era forse questo il suo scopo quando decise di scrivere e pubblicare dei libri –, Borges incombeva. 860fda41906f28b2de88812c3122515b
Si manifestò nel primo, o secondo, o terzo, o quarto, o seicentonovantaseiesimo piano, nella forma della serie di volumi La biblioteca di Babele da lui curata per Franco Maria Ricci, che in virtù dell’incontro con costui si credette, e quindi fu, reincarnazione di Dedalo: sottili volumi azzurrini o turchesi o color bottiglia, collana di letture fantastiche curata da J.L.B.: scoprii Léon Bloy, ebbi conferma di Poe, mi fu restituito Voltaire…

Il lettore non capirà il peso di quell’incontro se prima non chiarisco un fatto: dieci e più anni dopo quell’infanzia di letture infinite, avevo traversato le aule del liceo assorto in altri, ancor più astratti interessi, e quel che mi restava dell’amore per una certa letteratura lo sublimavo in altre combinatorie e altri transfert: il gioco delle carte; quello di proiezione e di ruolo, svolto settimanalmente in una stanza dei ‘‘fondi’’ dei miei genitori7; per un breve periodo il teatro; al massimo la psiconautica. La scoperta di quella collana in fondo all’apparentemente circoscritto labirinto montevarchino segnò quindi per me un secondo inizio. Quindi, un primo perdermi, senza mio padre a far da mistagogo, nel dungeon dei libri.

Non so quanti esami di Legge persi per strada: abbastanza da ricevere la lettera di coscrizione, ma anche abbastanza da leggere tutti quei trentatré volumi, e di lì – formavano del resto una stanza centrale, circolare, con mille porte – tracimare ovunque negli infiniti piani della biblioteca: Dostoevskij e Tolstoj, Sterne e Yates e Eliot, Rimbaud e Baudelaire e Maupassant e Flaubert si appropriarono del mio orizzonte, e quando parvero lasciare la presa era solo per lasciar spazio ai contemporanei, ai giganti che, scoprivo non senza sgomento, davvero potevano camminare fra noi…

Qualche mese fa ho ricevuto un invito a presenziare, con un discorso, all’inaugurazione della nuova biblioteca del mio paese natale. Tanto minuscolo è il paese che nella lettera mi si poteva già indicare come il suo più rilevante scrittore, titolato dunque a esserne alfiere, o addirittura nume, qualora si volesse concedere il piacere novecentesco della celebrazione dei libri. La nuova biblioteca è molto più bella della precedente. Ha anche più mistero, posta com’è in quello che fu un monastero risalente addirittura al settimo secolo, ma quando vi sono entrato per pronunciare le usuali bestialità che all’‘‘intellettuale’’ si chiedono in questi casi (spero di aver salvato almeno in parte la dignità ricordando proprio la scoperta di quei volumi, proprio Jorge Luis B., il bibliotecario) capii che il labirinto era ormai altrove.

E fu lì, in effetti, che per la prima volta ricordai l’altro labirinto, quello dell’infanzia. I ‘‘fondi’’, quel complesso cantina-garage-ripostiglio-cucina aggiuntiva-stanza di servizio-stanza della caldaia che stava sotto la casa in cui ero cresciuto, e che però, per via della presenza nel medesimo edificio della casa dei miei nonni, identica e speculare a quella dei miei, si raddoppiavano a loro volta sullo stesso livello sotterraneo, dando vita a un complesso molteplice e perturbante.

Capii di essere in un labirinto a nove anni, sebbene lo ricordassi solo allora, e lo ricordi nuovamente adesso. Passare da casa dei miei a quella dei miei nonni e viceversa, aprire la porta a vetri, scendere le prime scale con la stampa del gatto, svoltare, terminare le scale, svoltare (non verso la cucina e la cantina: dall’altra parte), passare per il garage dei miei, girare la chiave della porta di separazione, traversare la stanza piena di tavoli e ziri e disegni inquadrati dei più abili alunni di mia nonna, continuare senza aprire la porta bianca, di legno, con un personaggio tra l’Humpty Dumpty e lo gnomo disegnato a pennarello (‘‘da un amico della zia, durante una festa’’, mi si riferiva, all’espressione delle mie curiosità infantili: una festa, lì?) e mai cancellato fino in fondo – l’indelebile blu resisteva protervo all’acqua ragia di mio nonno – virare sulla destra per l’altra cucina, superare la piccola biblioteca d’angolo, tutta gialli Mondadori e polvere e ragni, salire le scale, già immaginando quelle di marmo rosa che erano poi l’ingresso della casa dei progenitori…

Fare quel percorso era la norma, questione di ogni giorno, avanti, indrìa, Mi vai dalla nonna a prendere due uova, del sale, della farina? Ma quella volta realizzai la stranezza di un fatto: la parete a sinistra delle ultime scale dei fondi aveva una finestra. Ora, a destra di finestre ce n’erano varie: piccole, dal vetro zigrinato, mai aperte, infestate esse pure di ragni e mezze nascoste da cactus malaticci per la carenza di luce. Ma erano quelle che davano sull’esterno. La finestra rettangolare a sinistra non dava su niente, se non sul precedente pezzetto di corridoio, il suo armadio, l’inizio della biblioteca che poi faceva angolo.

L’elemento architettonico superfluo, assurdo. Idea balorda di mio nonno, imposta ai muratori forse per ‘‘dare luce’’, oppure stigmate del labirinto, segnacolo della Città degli Immortali? Da anni passavo dall’una all’altra casa senza rendermi conto che l’inquietudine che provavo ogni volta (specie al ritorno: specie al ritorno) era quella di un Asterione.

Ci passo oggi: anni di letture ‘‘realistiche’’ mi impongono, per meglio completare quanto vado scrivendo, di tornare a controllare i luoghi dei fatti, fissarli un’ultima volta nella memoria, specie adesso che i miei nonni non sono più e i miei genitori si preparano, ed è tutto un brulicare di muratori stranieri per casa, per le due case, per il labirinto, a trasferirsi di sopra, oltre le scale rosa che sono, mi è chiaro adesso, il cancello del cielo che io stesso domani dovrò prepararmi a varcare; ci passo oggi e ritrovo, con quella finestra rettangolare, inspiegata, l’enigma. Vagheggio il traversarla direttamente, lo scavalcarla; poi realizzo essere adulto, la bastevolezza del fare la strada a ritroso, di svoltare l’angolo, ottenendo i medesimi effetti.

Giungo così alla piccola biblioteca, non più di cento volumi, tutti gialli, qualche Urania, addirittura dei Diabolik di mia zia ragazzina, di fatto messi lì solo perché non trovavano posto altrove: eppure per la prima volta cerco al suo interno, con gli occhi e le mani di chi ha ragionevoli motivi per pensare di trovare un volume specifico. E infatti eccolo, non quello di mio padre, dato che era, e immagino sia, ancora al suo posto, ma quello di mio nonno, il Meridiano di Borges, impolverato, senza più la custodia, ma intonso, probabilmente mai aperto. Confesso che ho sperato, soffiando via le ragnatele, scacciando la tegenaria appollaiata subito dietro, che aprendolo si rivelasse di sabbia. Lo aprii: era di polvere. Mi si disfece tra le mani. Con esso mi vidi dissiparmi e quindi lo fui.

Consegno queste pagine al curatore dell’antologia cui sono destinate, nella speranza di una loro pubblicazione in volume, la quale, vogliano i numi, porti alla collocazione in almeno una biblioteca (e quindi in tutte).

 

George Orwell

George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair (Motihari, 25 giugno 1903Londra, 21 gennaio 1950), è stato un giornalista, saggista, scrittore e attivista britannico.

Conosciuto come opinionista politico e culturale, ma anche noto romanziere, Orwell è uno dei saggisti di lingua inglese più diffusamente apprezzati del XX secolo. La sua grande fama è dovuta a due romanzi scritti verso la fine della sua vita, negli anni quaranta: l’allegoria politica de La fattoria degli animali e 1984, che descrive una così vivida distopia totalitaria da aver dato luogo alla nascita dell’aggettivo «orwelliano», oggi ampiamente usato per descrivere meccanismi totalitari di controllo del pensiero.

Orwell condusse sempre la sua attività letteraria in parallelo con quella di giornalista e attivista politico. Polemista lucido e anticonformista, Orwell non risparmiò critiche neanche all’intellighenzia socialista inglese, alla quale si sentiva profondamente estraneo.[1] Era e rimase sempre d’ispirazione politica di sinistra ma la presa di coscienza, anche in seguito a tragiche esperienze personali, delle contraddizioni e degli errori dello stalinismo realizzato in Unione Sovietica sotto Stalin, lo portò a essere antisovietico e antistalinista, scontrandosi così con una consistente parte di sinistra europea.

Nel 1946 Orwell scrisse:[2]

« Ogni riga di ogni lavoro serio che ho scritto dal 1936 a questa parte è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico, per come lo vedo io. »
(Perché scrivo)

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

« Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto. »
(1984)

George Orwell nacque a Motihari, Bihar, in India, il 25 giugno 1903 da una famiglia di origini scozzesi, appartenente alla “borghesia alto-bassa” (“lower-upper-middle class“).[3] Il padre, anglo-indiano, è funzionario dell’amministrazione britannica in India, dove la famiglia si destreggia a conciliare l’effettiva scarsità di mezzi con la salvaguardia delle apparenze. Orwell si trasferisce in Inghilterra con la madre e le due sorelle nel 1907, a Henley-on-Thames, in Sussex, dove si iscrive al college St. Cyprian di Eastbourne. Orwell era ateo, come riportato, in occasione del 60° anniversario della morte, nell’articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa, pagina Cultura, in data 23/02/2010. Ne esce con una borsa di studio e un forte complesso d’inferiorità, dovuto alle umiliazioni e allo snobismo subiti negli anni da parte dei compagni di studio e della società inglese (come narrerà nel suo saggio autobiografico Such, Such were the Joys del 1947). Nel 1917 viene ammesso all’Eton College, che frequenta per quattro anni, e dove ha per insegnante Aldous Huxley (altro grande esponente della letteratura distopica), alle cui opere si ispirerà per 1984, il suo romanzo più celebre. In questo stesso periodo stringe amicizia con Cyril Connolly, futuro critico letterario. Nel 1922 lascia gli studi per seguire le orme paterne e, tornato in India, si arruola nella Polizia Imperiale in Birmania (Burma). Il 22 novembre dello stesso anno arriva a Mandalay.

L’esperienza si rivela traumatica e il giovane Eric, diviso fra il crescente disgusto per l’arroganza imperialista e la funzione repressiva che il suo ruolo gli impone, il 1º gennaio 1928 si dimette. Questa vicenda biografica ispirerà, oltre ad alcuni memorabili saggi, il romanzo Giorni in Birmania, pubblicato nel 1934. Nello stesso anno 1928 parte per Parigi, dove spera di osservare con i propri occhi i bassifondi delle grandi metropoli europee. In questo periodo inizia a scrivere e lavora come sguattero in alcuni ristoranti. Sopravvive solo grazie alla carità dell’Esercito della Salvezza e sobbarcandosi lavori umilissimi. Un’esperienza che proseguirà anche in patria ispirando il suo romanzo d’esordio Senza un soldo a Parigi e Londra, pubblicato nel 1933 con lo pseudonimo di George Orwell.

Pubblica il suo primo celebre articolo su Le Monde[4] nel 1928. L’anno successivo si trasferisce a Southwold, nel Suffolk, lavorando da recensore per l’Adelphy e il New Statesman and Nation. Nell’aprile 1932 si trasferisce nel Middlesex, e inizia un lavoro da insegnante come maestro elementare per varie scuole private, che è costretto ad abbandonare per problemi di salute. Nel marzo dell’anno successivo pubblica La figlia del reverendo (1933) e accetta poi un lavoro part-time in una libreria e come critico di romanzi per il New English Weekly. Su commissione del Left Book Club, un’associazione culturale filosocialista, svolge un’indagine nelle zone più colpite dalla depressione economica che lo porterà, nei primi mesi del 1936, tra i minatori di carbone dell’Inghilterra settentrionale.

Le loro misere condizioni saranno descritte in La strada di Wigan Pier, pubblicato nel 1937. Nello stesso periodo si reca nel Lancashire e nello Yorkshire e successivamente a Wallington, nello Hertforshire, dove pubblica il romanzo Fiorirà l’aspidistra, ispirato alla sua vita di miserie di quegli anni, in cui sono narrate le vicende sentimentali di un aspirante scrittore, impegnato in una velleitaria battaglia contro i codici della vita borghese. A Wallington affitta in Kits Lane una casa nella quale una stanza è adibita a negozio, tanto che viene chiamata The Stores; nel negozio Eric e la sua compagna vendono uova fresche del loro pollaio, bacon, latte delle loro capre e strisce di liquirizia.

Il 9 giugno 1936 sposa nella chiesa anglicana di Wallington (nonostante entrambi si dichiarassero agnostici) Eileen O’Shaughnessy, sua compagna da un anno. A Wallington si trova la “Bury Farm”, la fattoria che, secondo molti, ispirò ad Orwell l’ambientazione de La fattoria degli animali. Scoppiata la guerra civile spagnola, lo scrittore vi prende parte combattendo per il Partito Operaio di Unificazione Marxista (POUM, Partito Obrero de Unificacion Marxista, d’ispirazione trotzkista), contro il dittatore Francisco Franco, ed è inviato sul fronte aragonese al fianco della 29a Divisione Repubblicana. Il 20 maggio 1937 viene ferito gravemente alla gola da un cecchino franchista e nove giorni dopo rientra a Barcellona. Il clima politico è cambiato: con il prevalere della linea del Fronte Popolare e del PCE (stalinista) nel governo repubblicano il POUM e gli anarchici sono dichiarati fuorilegge. Nel giugno dello stesso anno Orwell e sua moglie lasciano la Spagna quasi clandestinamente.

Targa sulla casa di Hampsted, Londra.

Di ritorno in Inghilterra scrive Omaggio alla Catalogna (1938), un diario-reportage contro gli stalinisti spagnoli (i quali agivano sotto lo stretto controllo dei “consiglieri” sovietici), accusati di aver tradito lealisti ed anarchici in Spagna. In settembre parte per il Marocco e, l’anno successivo, tornato in patria, scrive Una boccata d’aria (1939). Durante la seconda guerra mondiale viene respinto dall’esercito britannico come inabile e si arruola, nel 1940, nelle milizie territoriali della Home Guard, con il grado di sergente. In marzo Gollancz gli pubblica la raccolta di saggi Dentro la balena e, trasferitosi a Londra, cura per la BBC (l’ente radiotelevisivo britannico) una serie di trasmissioni propagandistiche rivolte all’India. Pubblica la raccolta di saggi Il leone e l’unicorno: il socialismo e il genio inglese (1941) e, tra il 1942 e il 1943, collabora alle riviste Horizon, New Statesman and Nation e Poetry London.

In novembre abbandona la Home Guard e diviene direttore del settimanale di sinistra Tribune, che gli affida una rubrica, As I please (A modo mio). Inizia a scrivere La fattoria degli animali, che terminerà nel febbraio del 1944, ma che, per le chiare allusioni critiche allo stalinismo, molti editori si rifiuteranno di pubblicare (in quel periodo la Russia di Stalin era alleata del Regno Unito contro il nazifascismo. Nel giugno 1944, dopo molti tentativi di avere un figlio naturalmente, adotta un bambino con il nome di Richard Horatio Blair e nel febbraio dell’anno seguente si dimette da direttore del Tribune, dopodiché diviene corrispondente di guerra da Francia, Germania e Austria, per conto dell'”Observer”. Nello stesso anno (1945) muore la moglie Eileen, in seguito ad un intervento chirurgico, e Secker & Warburg gli pubblicano il suo primo romanzo di successo, La fattoria degli animali.

La tomba di George Orwell.

Dal novembre 1946 all’aprile dell’anno successivo riprende a scrivere per il Tribune e nel 1947 si stabilisce con il figlio a Jura, una fredda e disagiata isola delle isole Ebridi. È minato dalla tubercolosi e il clima non si confà alle sue disperate condizioni di salute, costringendolo a continui ricoveri in sanatorio. Due anni dopo si risposa con Sonia Bronwell, redattrice di Horizon, e si occupa della revisione della sua opera più celebre, 1984 (scritto nel 1948).

Orwell muore per il cedimento di un’arteria polmonare il 21 gennaio 1950, in un ospedale di Londra, a 46 anni.[5]

Le opere[modifica | modifica wikitesto]

« Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza son la stessa cosa. »
(1984)

Orwell viene ricordato soprattutto per il contributo che diede alla letteratura distopica (il termine contrario all’utopia), di cui si servì nella sua lotta contro il totalitarismo. Dal punto di vista letterario egli si inserisce nel grande filone della letteratura satirica inglese, che si può far risalire a Jonathan Swift (in particolare I viaggi di Gulliver, ma anche il pamphlet Una modesta proposta). In realtà sono i saggi e gli articoli che – più di ogni altro suo scritto – costituiscono il contributo maggiore di questo aspro scrittore alla comprensione del suo (e del nostro) tempo, oltre che un alto esempio di esercizio della ragione e dello spirito critico, attraverso uno stile di esemplare chiarezza.

La sua scrittura, pur esprimendo concetti complessi, è chiara ed adotta parole ben comprensibili: Animal Farm (La fattoria degli animali) in particolare è stato più volte usato come lettura nei corsi di lingua inglese per stranieri. Esso è, sotto la parvenza di una favola per bambini, un’acuta parodia del comunismo centralista realizzato in Unione Sovietica: in una fattoria gli animali si ribellano ad un padrone umano crudele e dispotico ma la rivoluzione si trasforma in una nuova tirannia capeggiata dai maiali, corrotti e avidi di potere come gli uomini, e riassunta magistralmente dall’icastico motto: “Tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri”.

Orwell è un maestro che tramite le favole (La fattoria degli animali) ammonisce a non credere alle favole, che stimola a mantenere sempre alta la coscienza e lo spirito critico, a dubitare delle rivoluzioni pur ritenendole necessarie, a dubitare del nostro stesso pensiero, perché potrebbe essere condizionato dal linguaggio (la neolingua di 1984) costruito apposta per incarcerare la nostra mente. Ed è severo perché ci punisce subito, mostrando le devastazioni provocate dal sonno della ragione.

Opere[modifica | modifica wikitesto]

Romanzi[modifica | modifica wikitesto]

Saggi[modifica | modifica wikitesto]

Raccolte italiane[modifica | modifica wikitesto]

  • Tra sdegno e passione, traduzione di Enzo Giachino, Rizzoli, 1977 (estratto da The collected essays, journalism and letters of George Orwell, a cura di Sonia Orwell e Jan Angus).
    Contiene: Giorni felici; Rimorsi Birmani (L’elefante fucilato; Un impiccato); Avventure tra i poveri (Il dormitorio, 1931; La raccolta del luppolo, agosto-ottobre 1931; Nel paese dei minatori, febbraio-marzo 1936; Ricordi di libreria, novembre 1936; Come muoiono i poveri, novembre 1946); Spagna (Parigi – Barcellona, autunno 1942 Sguardo retrospettivo sulla guerra spagnola); Vacanze inquiete (Marrakesh, primavera 1939); Ricognizioni (Perché mi iscrissi al partito laburista indipendente, giugno 1938; Democrazia nell’esercito inglese, settembre 1939; Negri esclusi, luglio 1939; Noterelle occasionali, aprile 1940; Mein Kampf di Hitler, marzo 1940; «Il nemico totalitario» di F. Borkenau, maggio 1940; La patria, autunno 1940; Perché ce l’ho con i pacifisti, luglio 1942); Il leone e l’unicorno, febbraio 1941; La guerra vinta e la pace perduta (La mia guerra, estratti da Partisan Review gennaio 1941 – estate 1946, Diari di guerra 28-5-1940 – 28-8-1941 e 14-3-1942 – 15-11-1942, Come mi garba, 3-12-1943 – 16-2-1945 e novembre 1946 – 4-8-1947; Chi sono i criminali di guerra?, ottobre 1943; Criminali di guerra, marzo 1944; L’antisemitismo in Inghilterra, febbraio 1945); Caratteri inglesi (L’Inghilterra a prima vista e Il punto di vista morale degli inglesi, maggio 1944; Le rose di Woolworth, 21-1-1944; Quando c’era un po’ di religione, 6-1-1945; Che uccello è il woodwele?, 28-3-1947; Elogio del rospo, 12-4-1946); Ultimi fogli (estratti dal diario e dalle lettere, aprile 1947 – maggio 1949).
  • Nel ventre della balena e altri saggi, traduzione di Tiziana Barghigiani e Claudio Scappi, Sansoni, 1988.
    Contiene: Uccidendo un elefante; In difesa del romanzo; In miniera (Down the Mine, in The Road to Wigan Pier); Le bugie settimanali per ragazzi; Profezie del fascismo (Prophecies of Fascism, 12-7-1940); Nel ventre della balena; Chi sono i criminali di guerra?; Appunti sul nazionalismo; In difesa della cucina inglese (In Defence of English Cooking, 15-12-1945); Una buona tazza di tè; Lear, Tolstoi ed il Matto; Verso l’unità europea (Toward European Unity, luglio-agosto 1947); Riflessioni su Gandhi.
  • Romanzi e saggi, Mondadori, I Meridiani, Milano, 2000.
    • ROMANZI: Senza un soldo a Parigi e a Londra, traduzione di Isabella Leonetti; Omaggio alla Catalogna, traduzione di Riccardo Duranti; Una boccata d’aria, traduzione di Bruno Maffi; La fattoria degli animali. Una favola, traduzione di Guido Bulla; 1984, traduzione di Stefano Manferlotti; Una storia da fumoir 1 e 2, frammenti del romanzo mai scritto, traduzione di Guido Bulla.
    • SAGGI (traduzioni di Guido Bulla):
      • Racconti e saggi autobiografici: Un’impiccagione; L’uccisione dell’elefante; Ricordi di libreria; Marrakech; Come muoiono i poveri; Perché scrivo; E tali, tali erano le gioie.
      • Scritti e divagazioni su arte e società: In difesa del romanzo; Appunti occasionali [2], L’invasione marziana; “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin; I confini fra arte e propaganda; Letteratura e totalitarismo; L’arte di Donald McGill; Troppo severo con l’umanità. Intervista immaginaria a Jonathan Swift; La letteratura e la sinistra; Come mi pare [9, 14, 15, 16, 67]; Grandezza e decadenza del romanzo poliziesco inglese; Quanto è lungo un racconto?; La libertà di stampa; Solo roba vecchia… ma chi può resistere?; Una buona tazza di tè; «La luna in fondo al pozzo»; Quei bei delitti inglesi di una volta; Riflessioni sul rospo; “L’anima dell’uomo sotto il socialismo” di Oscar Wilde; Gli scrittori e il leviatano.
      • Interventi e testimonianze: “Assignment in utopia” di Eugene Lyons; “Mein Kampf” di Hitler; Appunti occasionali [1]; London letter alla «Partisan Review»; Il pacifismo e la guerra. Una discussione fra Derek Stanley Savage, George Woodcock, Alex Comfort e George Orwell; Dai diari di guerra; Chi sono i criminali di guerra?; Come mi pare [10, 22, 25, 37, 47, 51, 57, 66, 70]; Propaganda e linguaggio popolare; L’antisemitismo in Inghilterra; Noi e la bomba atomica; La vendetta è amara; L’almanacco del vecchio George di Orwell e la sua sfera di cristallo.
  • Diari di guerra, a cura di Guyda Armstrong, traduzione di Alessandra Sora, Oscar Mondadori, Milano, 2007; collezione Oscar narrativa, 1962. ISBN 978-88-04-57093-6
    • Contiene: Diari di guerra (tit. orig.: War-time diary), Il leone e l’unicorno (tit. orig.: The lion and the unicorn: socialism and the english genius), Lettere da Londra (London letters).

Prime edizioni italiane[modifica | modifica wikitesto]

  • La fattoria degli animali, Milano, A. Mondadori, 1947.
  • Giorni in Birmania, Milano, Longanesi, 1948.
  • Omaggio alla Catalogna, Milano, A. Mondadori, 1948.
  • 1984, Milano, A. Mondadori, 1950.
  • La fattoria degli animali. Libera riduzione tutta illustrata dal celebre romanzo di George Orwell realizzata da Livio Apolloni, Roma, Mercurio, 1953.
  • Fiorirà l’aspidistra, Milano, A. Mondadori, 1960.
  • La strada di Wigan Pier, Milano, A. Mondadori, 1960.
  • Una boccata d’aria, Milano, A. Mondadori, 1966.
  • Senza un soldo a Parigi e a Londra, Milano, A. Mondadori, 1966.
  • La figlia del reverendo, Milano, Garzanti, 1968.
  • Giorni in Birmania, Milano, Longanesi, 1975.
  • Tra sdegno e passione. Una scelta di saggi, articoli, lettere, Milano, Rizzoli, 1977.
  • La strada di Wigan Pier, Milano, A. Mondadori, 1982.
  • Nel ventre della balena e altri saggi, Firenze, Sansoni, 1988.
  • Cronache di guerra, Milano, Leonardo, 1989.
  • Romanzi, Milano, A. Mondadori, 1994.
  • Romanzi e saggi, Milano, A. Mondadori, 2000.
  • Ricordi della guerra di Spagna, Roma, Datanews, 2005.
  • Gli anni dell’Observer. La raccolta inedita degli articoli e le recensioni, 1942-49, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006.
  • Diari di guerra, Milano, Oscar Mondadori, 2007.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Approfondimenti[modifica | modifica wikitesto]

  • Guido Bulla, Il muro di vetro: Nineteen Eighty-Four e l’ultimo Orwell, Bulzoni, 1989
  • Bernard Crick, George Orwell, Il Mulino, 1991
  • Ugo Ronfani (a cura di), Orwell, i maiali e la libertà, Bevivino, 2004
  • Simon Leys, Orwell o L’orrore della politica, Irradiazioni, 2007
  • Christopher Hitchens, La vittoria di Orwell, Libri Scheiwiller, 2008
  • Luciano Marrocu, Orwell. La solitudine di uno scrittore, Della Porta, 2009
  • Antonio Manserra, La trilogia narrativa di George Orwell. Un’analisi di «A Clergyman’s Daughter», «Keep the Aspidistra Flying» e «Coming Up for Air», Franco Angeli, 2010
  • Beatrice Battaglia, Orwell oggi Orwell, Liguori, 2013

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Ad esempio il saggio The Freedom of the Press di Orwell (La libertà di stampa), che doveva fare da prefazione ad Animal farm nell’edizione del 1945 e fu rimosso dall’editore, esprime serie critiche nei confronti della classe intellettuale. “Il servilismo con cui, a partire dal 1941, la maggioranza degli intellettuali inglesi ha ingollato e riproposto la propaganda russa sarebbe del tutto stupefacente, se una cosa simile non fosse già accaduta in molte altre occasioni.”
  2. ^ Politica, letteratura e letteratura politica, martemagazine.it. URL consultato il 23 agosto 2012.
  3. ^ George Orwell, 8, in The Road to Wigan Pier, Left Book Club, febbraio 1937, p. 1.
  4. ^ Diretto da Henri Barbusse. Niente a che vedere con l’omonimo quotidiano che sarà fondato da Hubert Beuve-Méry, nel 1944.
  5. ^ George Orwell, Author, 46, Dead. British Writer, Acclaimed for His ‘1984’ and ‘Animal Farm,’ is Victim of Tuberculosis. Two Novels Popular Here Distaste for Imperialism, New York Times, 22 gennaio 1950, Sunday.
    «London, 21 January 1950. George Orwell, noted British novelist, died of tuberculosis in a hospital here today at the age of 46.».
  6. ^ George Orwell: A Hanging – Language choice
  7. ^ George Orwell: Shooting an Elephant – Language choice
  8. ^ George Orwell: Charles Dickens – Language choice
  9. ^ George Orwell: Boys’ weeklies – Language choice
  10. ^ George Orwell: Wells, Hitler and the World State – Language choice
  11. ^ George Orwell: The Art of Donald McGill – Language choice
  12. ^ George Orwell – Looking Back On The Spanish War – Essay
  13. ^ George Orwell: Benefit of Clergy: Some Notes on Salvador Dali – Language choice
  14. ^ George Orwell: Arthur Koestler – Language choice
  15. ^ George Orwell: Notes on Nationalism – Language choice
  16. ^ George Orwell: How the Poor Die – Language choice
  17. ^ George Orwell: Politics vs. Literature – An examination of Gullivers travels – Language choice
  18. ^ George Orwell: Politics and the English Language – Language choice
  19. ^ George Orwell: Second Thoughts on James Burnham – Language choice
  20. ^ George Orwell: Decline of the English Murder – Language choice
  21. ^ George Orwell: Some Thoughts on the Common Toad – Language choice
  22. ^ George Orwell: A Good Word for the Vicar of Bray – Language choice
  23. ^ George Orwell: In Defence of P. G. Wodehouse – Language choice
  24. ^ George Orwell: Why I Write – Language choice
  25. ^ George Orwell: The Prevention of Literature – Language choice
  26. ^ George Orwell: Such, Such Were The Joys – Index page
  27. ^ George Orwell: Lear, Tolstoy and the Fool – Language choice
  28. ^ George Orwell: Reflections on Gandhi – Language choice

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]